Manfred De La Rey
2005-10-01 18:02:33 UTC
L'uomo moderno cerca di fondare la propria ricchezza su quanto il mondo
gli dispensa fra alti e bassi. Superficialità, senza dubbio, e pertanto
criticabile, ma quanto preferibile alla falsa profondità dell'apparente
comprensione globale fornita da una credenza zoppicante. Giacché essere
Pagano oggi è, a mio avviso, voler superare sia il dualismo delle
religioni monoteiste rivelate - che chiamerò per comodità religioni
abramiche (Giudaismo, Cristianesimo Islam) - sia il nichilismo, tipico di
una modernità singolarmente distruttiva. Non intendo in nessun modo
rappresentare la totalità della corrente neo-pagana contemporanea. Del
resto, sono profondamente convinto che esistano tanti approcci al
paganesimo quanti sono i Pagani. E questo non è forse nella natura delle
cose, dal momento che il tratto caratteristico dei differenti Paganesimi,
vecchi o nuovi, europei o no, consiste precisamente in quest'esaltazione
dell'infinita pluralità del reale?
Ma vediamo che cos'è in realtà quello che viene chiamato Paganesimo.
Il termine si può prestare a confusioni e malintesi, tanto più che esso è
stato forgiato dai suoi avversari. Sono infatti i Cristiani che, nel corso
del III e del IV secolo, hanno fatto della parola latina paganus
(contadino) una sorta d'insulto.
I Pagani erano allora presentati come degli zoticoni, degli antiquati che
rifiutavano - sfrontati! - di convertirsi alla vera fede, quella del
Cristo. Ancora ai nostri giorni, il termine "Pagano" è talvolta inteso
come sinonimo di "barbaro", di "rozzo", e addirittura, presso certuni, di
"ateo". Ora, esso non è niente di tutto questo.
Il Paganesimo che io difendo è agli antipodi della discutibile esaltazione
di chissà quale barbarie o quale culto della forza bruta. Lo scrittore
ortodosso russo Vladimir Volkoff parla, in uno dei suoi romanzi, di
"nietzcheismo da boy-scout vizioso", espressione che mi sembra assai
calzante. Se i Pagani hanno sempre reso omaggi alle forze presenti
nell'universo, non si tratta per noi Politeisti, né di un culto della
violenza e tantomeno d'idolatria.
Quanto alla presunta rozzezza dei Pagani, mi limiterò a ricordare che da
millenni questi ultimi hanno sviluppato metafisiche estremamente raffinate
(si pensi ai Presocratici greci alle Upanishad dell'India, alle scuole
platoniche, pitagoriche o ermetiche...) e mitologie sontuose di cui
l'antropologia strutturale e il comparatismo di un Dumézil hanno mostrato
l'infinita ricchezza. Infine, l'ateismo - non dimentichiamolo - è
pressoché sconosciuto nelle società tradizionali. Non parlo qui
dell'ateismo di massa, che prolifera nelle nostre società postcristiane.
Per questo rimando al libro di Marcel Gauchet sul Cristianesimo come
agente del disincanto del mondo.
Se dovessi definire rapidamente il Paganesimo in quanto coerente visione
del mondo, direi che esso è fedeltà alla stirpe - considerata nel quadro
di una memoria millenari (quella che ci "re-ligat" [ religio, religione, è
appunto l'atto del religare, collegare ], che ci unisce ai nostri antenati
lontani) - radicamento in un territorio (termine da prendere lato sensu) e
apertura all'infinito. Potrei ugualmente parlare di partecipazione attiva
al mondo, d'equilibrio ricercato fra microcosmo e macro cosmo.
È religione naturale, la religione della natura e dei suoi cicli, la più
antica del mondo perché "nata" - ammesso e non concesso che il mondo sia
mai nato - con lui. Lungi dall'essere una fissazione di qualche tipo un
po' bislacco o una nostalgia da letterati fermi a qualche mitica Età
dell'Oro, oso affermare che il Paganesimo sta per diventare di nuovo la
prima religione del mondo. Infatti, se si considerano gli Induisti, gli
Scintoisti, i Taoisti, gli animisti e gli adepti - sempre più numerosi -
dei culti precristiani d'Europa o delle Americhe (si pensi alla
spettacolare rifioritura dello sciamanesimo nell'ex-URSS), dei culti
preislamici (Zoroastriani delle regioni turcofone) e persino pregiudaici
(penso in particolare ad un gruppo di Ebrei americani che desidera
ritornare ai culti politeisti degli Ebrei), si rischia davvero di arrivare
a un totale approssimativo di millecinquecento milioni di persone. Il che
ne fa, o ne farà presto, il primo gruppo religioso del pianeta. Due
potenze nucleari, l'India e la Cina, sono politeiste - una sotto orpelli
modernisti, l'altra sotto orpelli marxisti. In piena Pechino si
costruiscono templi taoisti, e l'Induismo è divenuto offensivo, dal
momento che missioni indù s'installano ai quattro angoli del mondo.
Per concludere questa breve illustrazione della reale importanza e del
carattere non aneddotico del Paganesimo moderno, ricordiamo che il
Paganesimo è religione ufficiale dell'Islanda dal 1973, che esso è in
parte riconosciuto in Gran Bretagna (ospedali, prigioni eccetera) e negli
Stati baltici. In Russia, correnti pagane si sviluppano a velocità
vertiginosa, nel bene e nel male, visto e considerato il disastro sociale
di questo Paese. Interessarsi al Paganesimo mi sembra dunque pertinente.
Quello che più spesso si rimprovera ai Pagani, antichi e moderni, è il
passatismo. E lo stesso rimprovero che veniva mosso dai marxisti a quei
poveri pazzi che non consideravano Marx e Lenin come gli orizzonti
insuperabili del pensiero. Questo rimprovero - di non essere "nel senso
della storia - è del tutto insensato, dal momento che il Paganesimo non ha
una visione lineare del tempo, un tempo visto come avanzata costante verso
il Progresso (la Parusìa) a partire da un momento ben definito (la nascita
del Cristo etc.). Questa concezione segmentata e lineare del tempo c'è
estranea.
Noi Pagani concepiamo il tempo come ciclico, proprio come i cicli cosmici
(quello solare, per esempio, con equinozi e solstizi). In realtà il
Paganesimo è una religione dell'anno, e dunque della verità. Il tempo dei
Pagani è quello dell'Eterno Ritorno, simile alla grande Ruota che gira e
gira senza posa.
Noi non crediamo né alla creazione né alla fine del mondo. Per noi, non ci
sarà apocalisse, bensì innumerevoli fini di cicli, eternamente
ricominciati. Una successione senza inizio né fine di nascite, crescite e
declini, di crepuscoli seguiti da rinnovamenti, di cataclismi seguiti da
rinascite, in seno a un Ordine (in greco: kosmos) intemporale, in cui
uomini e Dei, mortali e Immortali, hanno il loro posto e la loro funzione.
Il mito del Progresso non ci appartiene. Noi non crediamo al senso della
storia (concetto totalitario, a mio avviso), alla "fine" del Paganesimo,
alla "morte" degli Dèi. Di conseguenza, il rimprovero di adorare divinità
morte ci lascia indifferenti.
I nostri Dei, le nostre Dee non sono morti, per la semplice ragione che
non sono mai nati. Apollo e Dioniso, Cernunno ed Epona, Mithra e Perkunas
sono eternamente presenti al nostro fianco. Citiamo Eraclito (framm. 30):
"Il mondo di fronte a noi - il medesimo per tutti - non lo fece nessuno
degli Dèi né degli uomini, ma fu sempre, ed è, e sarà, fuoco vivente, che
divampa secondo misure e si estingue secondo misure". Questo breve
frammento vecchio di venticinque secoli traduce le linee di fondo del
pensiero pagano: eternità del mondo, ciclicità del tempo, comunità dei
mortali e degli Immortali...
Se il tempo è lineare, come vorrebbero le teologie giudeo-cristiana e
razionalista, il Paganesimo è impensabile, perché "morto", e scandaloso,
perché si muove in direzione contraria al sacrosanto senso della storia.
Ma se, come tutti noi avvertiamo, il tempo è ciclico, la prospettiva muta
radicalmente. Il Paganesimo non è mai potuto morire: perché, a immagine e
somiglianza delle innumerevoli divinità che popolano i suoi innumerevoli
pantheon, esso non è mai nato. Se le sue forme antiche (liturgie,
templi...) hanno ceduto il passo ad altre che pure vi si sono largamente
ispirate, tuttavia restano gli archetipi, che sono essi stessi eterni. Un
bell'esempio è quello del Cattolicesimo medioevale, rimasto molto pagano:
è quello che personalmente chiamerei il Pagano-Cristianesimo (fuochi di
san Giovanni, e tutta la mitologia cristiana).
Per meglio comprendere questa visione pagana del mondo, è indispensabile
superare i blocchi mentali - i famosi "ostacoli epistemologici" di
Bachelard - indotti dal modo di pensare giudeo-cristiano. Marcel Détienne
(uno dei maggiori ellenisti contemporanei), puntualizza nella sua
illuminante prefazione al bel libro del professor W.F. Otto dedicato agli
Dei della Grecia: "Dietro il falso sapere dell'intellettuale e
dell'universitario, spunta il grande avversario (...): il cristianesimo,
che fa da schermo fra gli Dei greci e noi, e che ci ha imposto in maniera
insidiosa un certo modo di pensare la religione. Dapprima inoculandoci il
virus dell'interiorità: in base al quale la religione è inseparabile da
una relazione personale col Dio, che l'unico contatto possibile con la
divinità deve avvenire attraverso un soggetto individuale - un Io che
apprenderebbe il sacro grazie a una sorta di protesi dell'anima, l'anima
inquieta e pavida delle civiltà malate. Altro male, non meno virulento:
che il sentimento religioso nascerebbe da un bisogno di salvezza che va di
pari passo con la trascendenza: che la finalità degli Dèi consiste nel
liberare gli uomini da questo mondo, nel farli salire accanto a sé, nello
strapparli a una natura dalla quale sono essi stessi totalmente disgiunti.
Con la sua angoscia di salvezza, Le sue gioie segrete di anima peccatrice,
il cristianesimo è soprattutto un ostacolo epistemologico: una malattia,
uno stato di languore al quale bisogna strapparsi e dal quale bisogna
guarire se si vuole riscoprire la figura autentica degli Dei della Grecia".
La citazione è lunga, ma notevole come perfetto esempio di teologia
negativa del Paganesimo. Marcel Detienne ha colto benissimo le differenze
fondamentali tra Paganesimo e rivelazioni abramiche. Qualcuno potrebbe
obiettare che, nell'Antichità, esisterono delle correnti, minoritarie ma
privilegiate dalla ricerca moderna, come l'Orfismo o i Misteri, che
conoscono questa ricerca di salvezza personale. Semplicemente, noi non ci
abbeveriamo a questa fonte, alla quale preferiamo la religione civile
arcaica.
Un altro ellenista, Jean-Pierre Vernant, professore al Collegio di
Francia, si è già posto la questione di sapere in quale modo noi potremmo
vedere la Luna, Selene, con gli occhi di un Greco, cioè di un Pagano: "Ho
potuto provarci in gioventù, durante il mio primo viaggio in Grecia.
Navigavo di notte, d'isola in isola; sdraiato sul ponte guardavo, sopra di
me, il cielo in cui brillava la luna, luminoso volto notturno, che
diffondeva il suo riverbero chiaro, immobile o danzante, sulla cupa
distesa del mare. Ero ammirato, affascinato da quel chiarore dolce e
strano che bagnava le onde addormentate; ero commosso come davanti ad una
presenza femminile, vicinissima e remota ad un tempo, familiare e tuttavia
inaccessibile, il cui splendore fosse venuto a visitare l'oscurità della
notte. Ecco Selene, mi dicevo, notturna, misteriosa e brillante - è Selene
che io vedo".
Il professor Vernant ha ragione, in questa poetica rievocazione della sua
gioventù, a parlare di "visione". Il Paganesimo è soprattutto una
conversione dello sguardo, quello che si rivolge su di un universo del
quale noi siamo, insieme alle Dee e agli Dèi, una parte integrante. Per
meglio assimilare questa visione pagana, questo sguardo pagano, dobbiamo
liberarci dal modello del "credente" delle religioni abramiche. Questo
termine è realmente privo di senso per un Pagano: egli non crede,
aderisce. Allo stesso modo, egli non si converte ad un'altra religione,
che sarebbe l'unica vera (e che negherebbe ipso facto tutte le altre
perché false, barbare o rozze). Semplicemente, il Pagano ridiviene quello
che è sempre stato, perché l'anima è naturalmente pagana. Anima
naturaliter pagana.
Liberarsi, dicevo, dal modello del credente. Uno che crede di potersi
assicurare la salvezza individuale ed eterna quaggiù e nell'aldilà, in
seno ad una Chiesa che, di fronte agli "infedeli" e ad altri eretici,
deterrebbe essa sola il monopolio del Vero e del Bene, e che sarebbe
l'unica abilitata a conferire al credente i sacramenti che fanno di lui un
"fedele" in opposizione agli infedeli", gli altri.
La nostra visione non è dualista, e noi respingiamo come prive di senso le
opposizioni artificiali fra Dio creatore e creature, cielo e terra, anima
e corpo, credenti e non credenti, ortodossi ed eretici etc. Il Paganesimo
è olistico, non dualista, e il nostro cammino è soprattutto ricerca di
legami più che di rotture. Ancora una volta, noi non neghiamo l'esistenza,
nel Paganesimo antico, di correnti dualiste, alle quali però non facciamo
riferimento.
Gli Dei e le Dee del Paganesimo non sono né unici né onniscienti. Essi non
hanno creato questo mondo, ma sono nati in esso e attraverso esso. A mano
a mano che l'universo, ciclo dopo ciclo, si organizzava a partire da
entità primordiali (Urano e Gaia, per esempio), essi sono scaturiti per
generazioni successive. I nostri Dei non sono persone, con le quali
stabilire relazioni personali, ma Potenze. Essi incarnano la pienezza dei
valori positivi: bellezza, splendore, forza, giovinezza...
Nel Paganesimo, esiste una comunità d'uomini e Dei, di mortali e
Immortali. Nel Simposio Platone parla appunto di "comunanza reciproca
d'uomini e Dei". Nel Gorgia, egli precisa: "i dotti affermano che il cielo
e la terra, gli Dei e gli uomini sono legati insieme dall'amicizia, il
rispetto dell'ordine, la moderazione e la giustizia, e per questa ragione
essi chiamano mondo l'insieme delle cose e non disordine e sregolatezza".
Molti secoli più tardi, Heidegger dirà: "La terra e il cielo, gli esseri
divini e quelli mortali formano un tutto unico".
Gli Dèi non sono dunque creatori del mondo ex nihilo: come creare qualcosa
a partire dal nulla? Essi sono emanazioni del mondo, nel quale si
manifestano. Questo concetto di manifestazione è fondamentale nella nostra
religione naturale, e si oppone a quello di rivelazione, che per
definizione è soprannaturale. Allo stesso modo, noi ignoriamo dogmi e
profeti, papi e curati, ortodossi ed eretici, sette e guru.
Il Pagano è nel mondo, che si sforza, in tutta umiltà, di decifrare per
meglio cogliere le innumerevoli manifestazioni del divino. E' Schiller, mi
pare ne "Gli Dei della Grecia", che diceva: "agli sguardi iniziati, ogni
cosa indica la traccia di un. Dio" - ancora questa idea dello sguardo!
Il Paganesimo non lascia mai che l'uomo si ripieghi su se stesso, sotto il
peso del peccato originale. Al contrario, essere pagano consiste
precisamente nell'aprirsi all'esperienza del mondo. Vorrei soffermarmi per
un momento sull'importanza dello sguardo, che i Greci chiamavano theorìa,
osservazione delle manifestazioni del divino. Essa ci riporta all'antica
concezione dell'èn tò pàn, che si ritrova sia presso i Presocratici che
nelle Upanishad: la dottrina non dualista dell'unità. In questa visione,
il mondo non è visto come intimamente malvagio ("Il quaggiù", termine
quasi peggiorativo in francese), incline al peccato, valle di lacrime da
attraversare in tutta fretta prima di potere accedere ad un qualche
ipotetico "retromondo". Non bisogna fuggire il mondo, ma affrontarlo,
senza Illusioni né speranze di salvezza.
C'è dunque una reale accettazione del mondo, con tutte le sue infinite
imperfezioni, ma considerato pur sempre come manifestazione del genio
divino. La sua contemplazione attiva non può che rafforzare il nostro
sentimento d'identità col grande Tutto. Queste concezioni intimamente
pagane sono sopravvissute in seno alla cristianità europea. Le si ritrova,
soffocate, in Scoto Eriugena, Meister Eckhart, Nicola Cusano... Il dogma
cristiano del Dio creatore esterno al mondo, sua creazione, è sempre stato
contestato. E la famosa tentazione panteista, tanto vilipesa dai teologi
ufficiali, gelosi custodi del Vero.
Già Cicerone, nel De divinatione, precisa: "tutto è pieno di spirito
divino e di senso eterno, di conseguenza le anime degli uomini sono mosse
dalla loro comunità d'essenza con le anime degli Dei". Ricordate la
citazione di Platone, poco più sopra? Ippocrate diceva, secoli prima di
Cicerone: "pànta thèia kàt anthròpina" [ le cose sono divine e umane al
tempo stesso - N.d.T.]. C'è del divino nel mondano e del mondano nel
divino...
Ho citato prima W.F. Otto, professore all'Università di Tubinga,
oppositore del nazionalsocialismo e seguace di Zeus Olimpio. Nel suo
notevole saggio sugli Dei della Grecia, dice: "Non è a partire da un
aldilà che la divinità opera nel foro interiore dell'uomo, o nella sua
anima, misteriosamente unita ad essa. Essa è tutt'uno col mondo. Essa si
para dinanzi all'uomo a partire dalle cose del mondo, quando egli è in
cammino e partecipa al fermento vitale del mondo. L'uomo fa l'esperienza
del divino non attraverso un ripiegamento su di sé, bensì attraverso un
movimento verso l'esterno".
Il Paganesimo ignora dogmi e catechismi. Nessun libro sacro ci prescrive
in modo autoritario quello che dovremmo "credere". La nostra libertà di
pensiero resta intatta. Soltanto, il nostro compito consiste nell'onorare
Dei e Dee per mezzo di riti, giacché il Paganesimo è una religione d'opere
più che di fede. Si tratta, è vero, di una religione vissuta nei gesti: il
saluto al Sole e alla Luna, i solstizi e gli equinozi, l'offerta di un
grano d'incenso o di qualche fiore...
Si pensi con attenzione quanto ci sia di degenerativo nelle accezioni
moderne di: "fato", "fatale" e "fatalismo". Anteponiamo quindi l'antica
concezione di tali parole: il "fato" è la «legge dello sviluppo del
mondo», una legge «piena di senso e come procedente da una volontà
intelligente, soprattutto da quella delle potenze olimpiche» (e non cieca,
irrazionale e automatica come nel senso moderno). Il fatum romano rimanda
al rta indoeuropeo, alla concezione del mondo come cosmos e ordine, e a
quella della storia come sviluppo di cause ed eventi, i quali riflettono
significati superiori. Proprio a tutto ciò si rivolgeva il significato di
fatum. L'espressione deriva dal verbo fari (da cui discende anche fas, il
diritto come legge divina), ed allude pertanto alla «parola». La parola
«rivelata», quella della divinità olimpica che fa conoscere la giusta
norma - fas - e allo stesso tempo annuncia ciò che sta per avvenire.
L'idea di fatum non annullava per questo la libertà umana: il pagano si
cura pertanto di formare la sua azione e la sua vita in modo che esse
continuassero l'ordine generale, ne fossero in un certo senso il
prolungamento ed uno sviluppo ulteriore. Egli pertanto cercava, e cerca di
presentire la direzione delle forze divine nella storia, così da potervi
connettere in modo opportuno l'azione, da armonizzarla con essa,
rendendola massimamente efficace e carica di significato. Ciò consegna
alla magia del rito un'importanza molto rilevante: le peggiori sciagure
per il pagano nascono dall'aver trascurato gli auspici, dall'aver agito
disordinatamente e arbitrariamente, rompendo i contatti con il mondo
superiore, il mondo dell'invisibile.
Gli Dèi sono Potenze, mai particolari in sé - si tratta sempre dell'Essere
del mondo tutto intero, nella manifestazione che gli è propria. Noi Pagani
non ci attendiamo alcun soccorso, alcuna salvezza dai nostri Dèi. La loro
sola esistenza, la sola presenza di queste entità inaccessibili e tuttavia
familiari basta a riempirci di gioia, a consolarci dei soprusi
dell'esistenza. Se noi non ci aspettiamo nulla dai nostri Dèi, anch'essi
dal canto loro sono indifferenti alla nostra sorte, ed è giusto così. La
morale della retribuzione ci è dunque estranea. Venticinque secoli fa -
ieri - Euripide ha espresso perfettamente questo modo di sentire nella sua
tragedia Ippolito. Ecco il dialogo che si svolge fra Artemide e il
protagonista al momento della sua morte:
" - Artemide: Addio, non mi è permesso di vedere i morti, né di lasciare
che il mio sguardo sta offuscato dall'ultimo respiro di un moribondo. E
già ti vedo vicino a questo passo doloroso.
- Ippolito - Vai pure. E addio dunque, te felice! Possa tu rompere senza
soffrire una lunga amicizia".Superbo esempio di superiorità e di distanza,
agli antipodi d'ogni sentimentalismo. E qui, indubbiamente, il grande
merito di questa filosofia, di questo atteggiamento: mai esitare a dire le
cose come stanno, senza abbellirle né lamentarsi, senza lusingarsi, senza
nascondere nulla e senza cercare la minima illusione consolatrice."
Ed eccoci ad un elemento centrale nella concezione pagana del mondo: il
Senso del Tragico. Gli Dei non sono onnipotenti, per quanto siano simboli
di pienezza. Essi non possono tutto, perché la loro potenza è limitata dal
Destino - Virgilio lo chiamava "inexorabile Fatum". Esiste dunque un
limite impossibile da superare. Presso i Greci sono le Moire, presso i
Romani le Parche, presso gli Scandinavi, le Nome - che filano il destino
proprio a ciascuno. Queste potenze impersonali e inflessibili sono
l'Ordine inviolabile del mondo. Esse sono al di sopra degli Dei, come
ricorda Omero: "nemmeno gli Dei, dice Atena, possono allontanare la morte
dall'uomo che prediligono quando la fatale Moira colpisce".
Il senso del Tragico consiste appunto nell'accettazione del Destino: amor
Fati. Esso è, del pari, coscienza acuta dei propri limiti e lucido rifiuto
di ogni consolazione, considerata cosa indegna di un uomo libero. Un
bell'esempio di personaggio tragico è presentato da Jacqueline de Romily
nel suo ultimo libro dedicato all'eroe omerico Ettore.
Gli Dei del Politeismo contemporaneo non concedono alcuna ricompensa. E la
nostra etica dell'onore che ci comanda di trasmettere un nome senza
macchia, di essere fedeli alla parola data e di rispettare i contratti. Il
Mithra degli Indo-Iraniani è proprio il Dio amico, quello del contratto.
Il Paganesimo è una religione non del peccato, ma dell'errore. L'errore
supremo è quello che i Greci, nostri maestri, chiamavano hybris: la
mancanza di moderazione, dettata dall'orgoglio, che spinge l'uomo accecato
a scagliarsi contro l'ordine cosmico. Il più terribile esempio di hybris
contemporanea è dato dai totalitarismi moderni, i quali, a furia di voler
"cambiare l'uomo" in realtà lo avviliscono.
Il Paganesimo non postula alcun riscatto. Si tratta, è vero, di una
religiosità di questo mondo, una religiosità dell'immanenza: il mondo è
sacralizzato. La cosa sembrerà strana per quanti continuano a credere che
la sola vera religione sia quella dell'aldilà. Ma essere Pagano oggi vuol
dire anche liberarsi da questo genere di cascami. Il Paganesimo non è una
religione del terrore, del disprezzo di sé, bensì della piena salute,
fisica e psichica: mens sana in corpore sano, diceva Giovenale ( Satire,
X, 356).
Inoltre il Paganesimo si caratterizza, idealmente parlando, per il suo
gusto dell'equilibrio. Sono ancora una volta i Greci a tracciare per noi
la via da seguire, col concetto delfìco di Méden Agan, (nulla di troppo),
illustrato dall'eccezionale senso delle proporzioni dell'arte ellenica.
Il Paganesimo non è una religione di salvezza (anche se certi culti
misterici che assicurano la salvezza agli adepti vi trovano un posto): si
tratta invece di una religione terrena, mirante ad assicurare la pienezza
ottimale in questo mondo, hic et nunc. Vi si cercherà invano la minima
ossessione dell'aldilà. La morte non vi è considerata come elemento
centrale (col corollario di un moralismo soffocante, e l'ipocrisia che ne
scaturisce). La morte è una tappa nel processo eterno di trasmissione:
come diceva Nietzsche - il filosofo col martello - "la Ruota gira" e la
danza degli elementi continua, senza inizio né fine. Alla domanda
angosciosa "che c'è dopo la morte?", noi aggiungeremo l'altra - "e prima
della nascita?". Per noi, i cicli sono cominciati ben prima della nostra
nascita e continueranno ancora per molto dopo la nostra scomparsa, a
maggior gloria degli Dei. Taliesin, poeta gallese del Medio Evo, ha ben
illustrato quest'intuizione:
Sono stato rivestito di un'altra forma
Sono stato salmone azzurro
Sono stato cane. Sono stato cervo
Sono stato daino sulla montagna
Sono stato palo. Sono stato vanga
Sono stato scure salda in mano
Sono stato gallo variopinto
Signore di galline schiamazzanti
Sono stato stallone nella scuderia
Sono stato toro nella fattoria
Sono stato setaccio del mugnaio
Aia del coltivatore
Sono stato seme nel solco
Sono cresciuto sulla collina
Chi mi aveva seminato mi ha raccolto
Questo bel testo è più che sufficiente per concludere questa rapida
presentazione del Paganesimo. Ho voluto citare qui tutta una serie di
testi - da Eraclito a Vernant, da Cicerone a Romilly, non per pedanteria
ma per meglio mostrare che io sono soltanto una maglia di una catena
plurimillenaria. In realtà, io mi considero "parlato" da queste
testimonianze di una fede secolare, angariata, perseguitata, soffocata -
ma sempre rinascente e indomita.
gli dispensa fra alti e bassi. Superficialità, senza dubbio, e pertanto
criticabile, ma quanto preferibile alla falsa profondità dell'apparente
comprensione globale fornita da una credenza zoppicante. Giacché essere
Pagano oggi è, a mio avviso, voler superare sia il dualismo delle
religioni monoteiste rivelate - che chiamerò per comodità religioni
abramiche (Giudaismo, Cristianesimo Islam) - sia il nichilismo, tipico di
una modernità singolarmente distruttiva. Non intendo in nessun modo
rappresentare la totalità della corrente neo-pagana contemporanea. Del
resto, sono profondamente convinto che esistano tanti approcci al
paganesimo quanti sono i Pagani. E questo non è forse nella natura delle
cose, dal momento che il tratto caratteristico dei differenti Paganesimi,
vecchi o nuovi, europei o no, consiste precisamente in quest'esaltazione
dell'infinita pluralità del reale?
Ma vediamo che cos'è in realtà quello che viene chiamato Paganesimo.
Il termine si può prestare a confusioni e malintesi, tanto più che esso è
stato forgiato dai suoi avversari. Sono infatti i Cristiani che, nel corso
del III e del IV secolo, hanno fatto della parola latina paganus
(contadino) una sorta d'insulto.
I Pagani erano allora presentati come degli zoticoni, degli antiquati che
rifiutavano - sfrontati! - di convertirsi alla vera fede, quella del
Cristo. Ancora ai nostri giorni, il termine "Pagano" è talvolta inteso
come sinonimo di "barbaro", di "rozzo", e addirittura, presso certuni, di
"ateo". Ora, esso non è niente di tutto questo.
Il Paganesimo che io difendo è agli antipodi della discutibile esaltazione
di chissà quale barbarie o quale culto della forza bruta. Lo scrittore
ortodosso russo Vladimir Volkoff parla, in uno dei suoi romanzi, di
"nietzcheismo da boy-scout vizioso", espressione che mi sembra assai
calzante. Se i Pagani hanno sempre reso omaggi alle forze presenti
nell'universo, non si tratta per noi Politeisti, né di un culto della
violenza e tantomeno d'idolatria.
Quanto alla presunta rozzezza dei Pagani, mi limiterò a ricordare che da
millenni questi ultimi hanno sviluppato metafisiche estremamente raffinate
(si pensi ai Presocratici greci alle Upanishad dell'India, alle scuole
platoniche, pitagoriche o ermetiche...) e mitologie sontuose di cui
l'antropologia strutturale e il comparatismo di un Dumézil hanno mostrato
l'infinita ricchezza. Infine, l'ateismo - non dimentichiamolo - è
pressoché sconosciuto nelle società tradizionali. Non parlo qui
dell'ateismo di massa, che prolifera nelle nostre società postcristiane.
Per questo rimando al libro di Marcel Gauchet sul Cristianesimo come
agente del disincanto del mondo.
Se dovessi definire rapidamente il Paganesimo in quanto coerente visione
del mondo, direi che esso è fedeltà alla stirpe - considerata nel quadro
di una memoria millenari (quella che ci "re-ligat" [ religio, religione, è
appunto l'atto del religare, collegare ], che ci unisce ai nostri antenati
lontani) - radicamento in un territorio (termine da prendere lato sensu) e
apertura all'infinito. Potrei ugualmente parlare di partecipazione attiva
al mondo, d'equilibrio ricercato fra microcosmo e macro cosmo.
È religione naturale, la religione della natura e dei suoi cicli, la più
antica del mondo perché "nata" - ammesso e non concesso che il mondo sia
mai nato - con lui. Lungi dall'essere una fissazione di qualche tipo un
po' bislacco o una nostalgia da letterati fermi a qualche mitica Età
dell'Oro, oso affermare che il Paganesimo sta per diventare di nuovo la
prima religione del mondo. Infatti, se si considerano gli Induisti, gli
Scintoisti, i Taoisti, gli animisti e gli adepti - sempre più numerosi -
dei culti precristiani d'Europa o delle Americhe (si pensi alla
spettacolare rifioritura dello sciamanesimo nell'ex-URSS), dei culti
preislamici (Zoroastriani delle regioni turcofone) e persino pregiudaici
(penso in particolare ad un gruppo di Ebrei americani che desidera
ritornare ai culti politeisti degli Ebrei), si rischia davvero di arrivare
a un totale approssimativo di millecinquecento milioni di persone. Il che
ne fa, o ne farà presto, il primo gruppo religioso del pianeta. Due
potenze nucleari, l'India e la Cina, sono politeiste - una sotto orpelli
modernisti, l'altra sotto orpelli marxisti. In piena Pechino si
costruiscono templi taoisti, e l'Induismo è divenuto offensivo, dal
momento che missioni indù s'installano ai quattro angoli del mondo.
Per concludere questa breve illustrazione della reale importanza e del
carattere non aneddotico del Paganesimo moderno, ricordiamo che il
Paganesimo è religione ufficiale dell'Islanda dal 1973, che esso è in
parte riconosciuto in Gran Bretagna (ospedali, prigioni eccetera) e negli
Stati baltici. In Russia, correnti pagane si sviluppano a velocità
vertiginosa, nel bene e nel male, visto e considerato il disastro sociale
di questo Paese. Interessarsi al Paganesimo mi sembra dunque pertinente.
Quello che più spesso si rimprovera ai Pagani, antichi e moderni, è il
passatismo. E lo stesso rimprovero che veniva mosso dai marxisti a quei
poveri pazzi che non consideravano Marx e Lenin come gli orizzonti
insuperabili del pensiero. Questo rimprovero - di non essere "nel senso
della storia - è del tutto insensato, dal momento che il Paganesimo non ha
una visione lineare del tempo, un tempo visto come avanzata costante verso
il Progresso (la Parusìa) a partire da un momento ben definito (la nascita
del Cristo etc.). Questa concezione segmentata e lineare del tempo c'è
estranea.
Noi Pagani concepiamo il tempo come ciclico, proprio come i cicli cosmici
(quello solare, per esempio, con equinozi e solstizi). In realtà il
Paganesimo è una religione dell'anno, e dunque della verità. Il tempo dei
Pagani è quello dell'Eterno Ritorno, simile alla grande Ruota che gira e
gira senza posa.
Noi non crediamo né alla creazione né alla fine del mondo. Per noi, non ci
sarà apocalisse, bensì innumerevoli fini di cicli, eternamente
ricominciati. Una successione senza inizio né fine di nascite, crescite e
declini, di crepuscoli seguiti da rinnovamenti, di cataclismi seguiti da
rinascite, in seno a un Ordine (in greco: kosmos) intemporale, in cui
uomini e Dei, mortali e Immortali, hanno il loro posto e la loro funzione.
Il mito del Progresso non ci appartiene. Noi non crediamo al senso della
storia (concetto totalitario, a mio avviso), alla "fine" del Paganesimo,
alla "morte" degli Dèi. Di conseguenza, il rimprovero di adorare divinità
morte ci lascia indifferenti.
I nostri Dei, le nostre Dee non sono morti, per la semplice ragione che
non sono mai nati. Apollo e Dioniso, Cernunno ed Epona, Mithra e Perkunas
sono eternamente presenti al nostro fianco. Citiamo Eraclito (framm. 30):
"Il mondo di fronte a noi - il medesimo per tutti - non lo fece nessuno
degli Dèi né degli uomini, ma fu sempre, ed è, e sarà, fuoco vivente, che
divampa secondo misure e si estingue secondo misure". Questo breve
frammento vecchio di venticinque secoli traduce le linee di fondo del
pensiero pagano: eternità del mondo, ciclicità del tempo, comunità dei
mortali e degli Immortali...
Se il tempo è lineare, come vorrebbero le teologie giudeo-cristiana e
razionalista, il Paganesimo è impensabile, perché "morto", e scandaloso,
perché si muove in direzione contraria al sacrosanto senso della storia.
Ma se, come tutti noi avvertiamo, il tempo è ciclico, la prospettiva muta
radicalmente. Il Paganesimo non è mai potuto morire: perché, a immagine e
somiglianza delle innumerevoli divinità che popolano i suoi innumerevoli
pantheon, esso non è mai nato. Se le sue forme antiche (liturgie,
templi...) hanno ceduto il passo ad altre che pure vi si sono largamente
ispirate, tuttavia restano gli archetipi, che sono essi stessi eterni. Un
bell'esempio è quello del Cattolicesimo medioevale, rimasto molto pagano:
è quello che personalmente chiamerei il Pagano-Cristianesimo (fuochi di
san Giovanni, e tutta la mitologia cristiana).
Per meglio comprendere questa visione pagana del mondo, è indispensabile
superare i blocchi mentali - i famosi "ostacoli epistemologici" di
Bachelard - indotti dal modo di pensare giudeo-cristiano. Marcel Détienne
(uno dei maggiori ellenisti contemporanei), puntualizza nella sua
illuminante prefazione al bel libro del professor W.F. Otto dedicato agli
Dei della Grecia: "Dietro il falso sapere dell'intellettuale e
dell'universitario, spunta il grande avversario (...): il cristianesimo,
che fa da schermo fra gli Dei greci e noi, e che ci ha imposto in maniera
insidiosa un certo modo di pensare la religione. Dapprima inoculandoci il
virus dell'interiorità: in base al quale la religione è inseparabile da
una relazione personale col Dio, che l'unico contatto possibile con la
divinità deve avvenire attraverso un soggetto individuale - un Io che
apprenderebbe il sacro grazie a una sorta di protesi dell'anima, l'anima
inquieta e pavida delle civiltà malate. Altro male, non meno virulento:
che il sentimento religioso nascerebbe da un bisogno di salvezza che va di
pari passo con la trascendenza: che la finalità degli Dèi consiste nel
liberare gli uomini da questo mondo, nel farli salire accanto a sé, nello
strapparli a una natura dalla quale sono essi stessi totalmente disgiunti.
Con la sua angoscia di salvezza, Le sue gioie segrete di anima peccatrice,
il cristianesimo è soprattutto un ostacolo epistemologico: una malattia,
uno stato di languore al quale bisogna strapparsi e dal quale bisogna
guarire se si vuole riscoprire la figura autentica degli Dei della Grecia".
La citazione è lunga, ma notevole come perfetto esempio di teologia
negativa del Paganesimo. Marcel Detienne ha colto benissimo le differenze
fondamentali tra Paganesimo e rivelazioni abramiche. Qualcuno potrebbe
obiettare che, nell'Antichità, esisterono delle correnti, minoritarie ma
privilegiate dalla ricerca moderna, come l'Orfismo o i Misteri, che
conoscono questa ricerca di salvezza personale. Semplicemente, noi non ci
abbeveriamo a questa fonte, alla quale preferiamo la religione civile
arcaica.
Un altro ellenista, Jean-Pierre Vernant, professore al Collegio di
Francia, si è già posto la questione di sapere in quale modo noi potremmo
vedere la Luna, Selene, con gli occhi di un Greco, cioè di un Pagano: "Ho
potuto provarci in gioventù, durante il mio primo viaggio in Grecia.
Navigavo di notte, d'isola in isola; sdraiato sul ponte guardavo, sopra di
me, il cielo in cui brillava la luna, luminoso volto notturno, che
diffondeva il suo riverbero chiaro, immobile o danzante, sulla cupa
distesa del mare. Ero ammirato, affascinato da quel chiarore dolce e
strano che bagnava le onde addormentate; ero commosso come davanti ad una
presenza femminile, vicinissima e remota ad un tempo, familiare e tuttavia
inaccessibile, il cui splendore fosse venuto a visitare l'oscurità della
notte. Ecco Selene, mi dicevo, notturna, misteriosa e brillante - è Selene
che io vedo".
Il professor Vernant ha ragione, in questa poetica rievocazione della sua
gioventù, a parlare di "visione". Il Paganesimo è soprattutto una
conversione dello sguardo, quello che si rivolge su di un universo del
quale noi siamo, insieme alle Dee e agli Dèi, una parte integrante. Per
meglio assimilare questa visione pagana, questo sguardo pagano, dobbiamo
liberarci dal modello del "credente" delle religioni abramiche. Questo
termine è realmente privo di senso per un Pagano: egli non crede,
aderisce. Allo stesso modo, egli non si converte ad un'altra religione,
che sarebbe l'unica vera (e che negherebbe ipso facto tutte le altre
perché false, barbare o rozze). Semplicemente, il Pagano ridiviene quello
che è sempre stato, perché l'anima è naturalmente pagana. Anima
naturaliter pagana.
Liberarsi, dicevo, dal modello del credente. Uno che crede di potersi
assicurare la salvezza individuale ed eterna quaggiù e nell'aldilà, in
seno ad una Chiesa che, di fronte agli "infedeli" e ad altri eretici,
deterrebbe essa sola il monopolio del Vero e del Bene, e che sarebbe
l'unica abilitata a conferire al credente i sacramenti che fanno di lui un
"fedele" in opposizione agli infedeli", gli altri.
La nostra visione non è dualista, e noi respingiamo come prive di senso le
opposizioni artificiali fra Dio creatore e creature, cielo e terra, anima
e corpo, credenti e non credenti, ortodossi ed eretici etc. Il Paganesimo
è olistico, non dualista, e il nostro cammino è soprattutto ricerca di
legami più che di rotture. Ancora una volta, noi non neghiamo l'esistenza,
nel Paganesimo antico, di correnti dualiste, alle quali però non facciamo
riferimento.
Gli Dei e le Dee del Paganesimo non sono né unici né onniscienti. Essi non
hanno creato questo mondo, ma sono nati in esso e attraverso esso. A mano
a mano che l'universo, ciclo dopo ciclo, si organizzava a partire da
entità primordiali (Urano e Gaia, per esempio), essi sono scaturiti per
generazioni successive. I nostri Dei non sono persone, con le quali
stabilire relazioni personali, ma Potenze. Essi incarnano la pienezza dei
valori positivi: bellezza, splendore, forza, giovinezza...
Nel Paganesimo, esiste una comunità d'uomini e Dei, di mortali e
Immortali. Nel Simposio Platone parla appunto di "comunanza reciproca
d'uomini e Dei". Nel Gorgia, egli precisa: "i dotti affermano che il cielo
e la terra, gli Dei e gli uomini sono legati insieme dall'amicizia, il
rispetto dell'ordine, la moderazione e la giustizia, e per questa ragione
essi chiamano mondo l'insieme delle cose e non disordine e sregolatezza".
Molti secoli più tardi, Heidegger dirà: "La terra e il cielo, gli esseri
divini e quelli mortali formano un tutto unico".
Gli Dèi non sono dunque creatori del mondo ex nihilo: come creare qualcosa
a partire dal nulla? Essi sono emanazioni del mondo, nel quale si
manifestano. Questo concetto di manifestazione è fondamentale nella nostra
religione naturale, e si oppone a quello di rivelazione, che per
definizione è soprannaturale. Allo stesso modo, noi ignoriamo dogmi e
profeti, papi e curati, ortodossi ed eretici, sette e guru.
Il Pagano è nel mondo, che si sforza, in tutta umiltà, di decifrare per
meglio cogliere le innumerevoli manifestazioni del divino. E' Schiller, mi
pare ne "Gli Dei della Grecia", che diceva: "agli sguardi iniziati, ogni
cosa indica la traccia di un. Dio" - ancora questa idea dello sguardo!
Il Paganesimo non lascia mai che l'uomo si ripieghi su se stesso, sotto il
peso del peccato originale. Al contrario, essere pagano consiste
precisamente nell'aprirsi all'esperienza del mondo. Vorrei soffermarmi per
un momento sull'importanza dello sguardo, che i Greci chiamavano theorìa,
osservazione delle manifestazioni del divino. Essa ci riporta all'antica
concezione dell'èn tò pàn, che si ritrova sia presso i Presocratici che
nelle Upanishad: la dottrina non dualista dell'unità. In questa visione,
il mondo non è visto come intimamente malvagio ("Il quaggiù", termine
quasi peggiorativo in francese), incline al peccato, valle di lacrime da
attraversare in tutta fretta prima di potere accedere ad un qualche
ipotetico "retromondo". Non bisogna fuggire il mondo, ma affrontarlo,
senza Illusioni né speranze di salvezza.
C'è dunque una reale accettazione del mondo, con tutte le sue infinite
imperfezioni, ma considerato pur sempre come manifestazione del genio
divino. La sua contemplazione attiva non può che rafforzare il nostro
sentimento d'identità col grande Tutto. Queste concezioni intimamente
pagane sono sopravvissute in seno alla cristianità europea. Le si ritrova,
soffocate, in Scoto Eriugena, Meister Eckhart, Nicola Cusano... Il dogma
cristiano del Dio creatore esterno al mondo, sua creazione, è sempre stato
contestato. E la famosa tentazione panteista, tanto vilipesa dai teologi
ufficiali, gelosi custodi del Vero.
Già Cicerone, nel De divinatione, precisa: "tutto è pieno di spirito
divino e di senso eterno, di conseguenza le anime degli uomini sono mosse
dalla loro comunità d'essenza con le anime degli Dei". Ricordate la
citazione di Platone, poco più sopra? Ippocrate diceva, secoli prima di
Cicerone: "pànta thèia kàt anthròpina" [ le cose sono divine e umane al
tempo stesso - N.d.T.]. C'è del divino nel mondano e del mondano nel
divino...
Ho citato prima W.F. Otto, professore all'Università di Tubinga,
oppositore del nazionalsocialismo e seguace di Zeus Olimpio. Nel suo
notevole saggio sugli Dei della Grecia, dice: "Non è a partire da un
aldilà che la divinità opera nel foro interiore dell'uomo, o nella sua
anima, misteriosamente unita ad essa. Essa è tutt'uno col mondo. Essa si
para dinanzi all'uomo a partire dalle cose del mondo, quando egli è in
cammino e partecipa al fermento vitale del mondo. L'uomo fa l'esperienza
del divino non attraverso un ripiegamento su di sé, bensì attraverso un
movimento verso l'esterno".
Il Paganesimo ignora dogmi e catechismi. Nessun libro sacro ci prescrive
in modo autoritario quello che dovremmo "credere". La nostra libertà di
pensiero resta intatta. Soltanto, il nostro compito consiste nell'onorare
Dei e Dee per mezzo di riti, giacché il Paganesimo è una religione d'opere
più che di fede. Si tratta, è vero, di una religione vissuta nei gesti: il
saluto al Sole e alla Luna, i solstizi e gli equinozi, l'offerta di un
grano d'incenso o di qualche fiore...
Si pensi con attenzione quanto ci sia di degenerativo nelle accezioni
moderne di: "fato", "fatale" e "fatalismo". Anteponiamo quindi l'antica
concezione di tali parole: il "fato" è la «legge dello sviluppo del
mondo», una legge «piena di senso e come procedente da una volontà
intelligente, soprattutto da quella delle potenze olimpiche» (e non cieca,
irrazionale e automatica come nel senso moderno). Il fatum romano rimanda
al rta indoeuropeo, alla concezione del mondo come cosmos e ordine, e a
quella della storia come sviluppo di cause ed eventi, i quali riflettono
significati superiori. Proprio a tutto ciò si rivolgeva il significato di
fatum. L'espressione deriva dal verbo fari (da cui discende anche fas, il
diritto come legge divina), ed allude pertanto alla «parola». La parola
«rivelata», quella della divinità olimpica che fa conoscere la giusta
norma - fas - e allo stesso tempo annuncia ciò che sta per avvenire.
L'idea di fatum non annullava per questo la libertà umana: il pagano si
cura pertanto di formare la sua azione e la sua vita in modo che esse
continuassero l'ordine generale, ne fossero in un certo senso il
prolungamento ed uno sviluppo ulteriore. Egli pertanto cercava, e cerca di
presentire la direzione delle forze divine nella storia, così da potervi
connettere in modo opportuno l'azione, da armonizzarla con essa,
rendendola massimamente efficace e carica di significato. Ciò consegna
alla magia del rito un'importanza molto rilevante: le peggiori sciagure
per il pagano nascono dall'aver trascurato gli auspici, dall'aver agito
disordinatamente e arbitrariamente, rompendo i contatti con il mondo
superiore, il mondo dell'invisibile.
Gli Dèi sono Potenze, mai particolari in sé - si tratta sempre dell'Essere
del mondo tutto intero, nella manifestazione che gli è propria. Noi Pagani
non ci attendiamo alcun soccorso, alcuna salvezza dai nostri Dèi. La loro
sola esistenza, la sola presenza di queste entità inaccessibili e tuttavia
familiari basta a riempirci di gioia, a consolarci dei soprusi
dell'esistenza. Se noi non ci aspettiamo nulla dai nostri Dèi, anch'essi
dal canto loro sono indifferenti alla nostra sorte, ed è giusto così. La
morale della retribuzione ci è dunque estranea. Venticinque secoli fa -
ieri - Euripide ha espresso perfettamente questo modo di sentire nella sua
tragedia Ippolito. Ecco il dialogo che si svolge fra Artemide e il
protagonista al momento della sua morte:
" - Artemide: Addio, non mi è permesso di vedere i morti, né di lasciare
che il mio sguardo sta offuscato dall'ultimo respiro di un moribondo. E
già ti vedo vicino a questo passo doloroso.
- Ippolito - Vai pure. E addio dunque, te felice! Possa tu rompere senza
soffrire una lunga amicizia".Superbo esempio di superiorità e di distanza,
agli antipodi d'ogni sentimentalismo. E qui, indubbiamente, il grande
merito di questa filosofia, di questo atteggiamento: mai esitare a dire le
cose come stanno, senza abbellirle né lamentarsi, senza lusingarsi, senza
nascondere nulla e senza cercare la minima illusione consolatrice."
Ed eccoci ad un elemento centrale nella concezione pagana del mondo: il
Senso del Tragico. Gli Dei non sono onnipotenti, per quanto siano simboli
di pienezza. Essi non possono tutto, perché la loro potenza è limitata dal
Destino - Virgilio lo chiamava "inexorabile Fatum". Esiste dunque un
limite impossibile da superare. Presso i Greci sono le Moire, presso i
Romani le Parche, presso gli Scandinavi, le Nome - che filano il destino
proprio a ciascuno. Queste potenze impersonali e inflessibili sono
l'Ordine inviolabile del mondo. Esse sono al di sopra degli Dei, come
ricorda Omero: "nemmeno gli Dei, dice Atena, possono allontanare la morte
dall'uomo che prediligono quando la fatale Moira colpisce".
Il senso del Tragico consiste appunto nell'accettazione del Destino: amor
Fati. Esso è, del pari, coscienza acuta dei propri limiti e lucido rifiuto
di ogni consolazione, considerata cosa indegna di un uomo libero. Un
bell'esempio di personaggio tragico è presentato da Jacqueline de Romily
nel suo ultimo libro dedicato all'eroe omerico Ettore.
Gli Dei del Politeismo contemporaneo non concedono alcuna ricompensa. E la
nostra etica dell'onore che ci comanda di trasmettere un nome senza
macchia, di essere fedeli alla parola data e di rispettare i contratti. Il
Mithra degli Indo-Iraniani è proprio il Dio amico, quello del contratto.
Il Paganesimo è una religione non del peccato, ma dell'errore. L'errore
supremo è quello che i Greci, nostri maestri, chiamavano hybris: la
mancanza di moderazione, dettata dall'orgoglio, che spinge l'uomo accecato
a scagliarsi contro l'ordine cosmico. Il più terribile esempio di hybris
contemporanea è dato dai totalitarismi moderni, i quali, a furia di voler
"cambiare l'uomo" in realtà lo avviliscono.
Il Paganesimo non postula alcun riscatto. Si tratta, è vero, di una
religiosità di questo mondo, una religiosità dell'immanenza: il mondo è
sacralizzato. La cosa sembrerà strana per quanti continuano a credere che
la sola vera religione sia quella dell'aldilà. Ma essere Pagano oggi vuol
dire anche liberarsi da questo genere di cascami. Il Paganesimo non è una
religione del terrore, del disprezzo di sé, bensì della piena salute,
fisica e psichica: mens sana in corpore sano, diceva Giovenale ( Satire,
X, 356).
Inoltre il Paganesimo si caratterizza, idealmente parlando, per il suo
gusto dell'equilibrio. Sono ancora una volta i Greci a tracciare per noi
la via da seguire, col concetto delfìco di Méden Agan, (nulla di troppo),
illustrato dall'eccezionale senso delle proporzioni dell'arte ellenica.
Il Paganesimo non è una religione di salvezza (anche se certi culti
misterici che assicurano la salvezza agli adepti vi trovano un posto): si
tratta invece di una religione terrena, mirante ad assicurare la pienezza
ottimale in questo mondo, hic et nunc. Vi si cercherà invano la minima
ossessione dell'aldilà. La morte non vi è considerata come elemento
centrale (col corollario di un moralismo soffocante, e l'ipocrisia che ne
scaturisce). La morte è una tappa nel processo eterno di trasmissione:
come diceva Nietzsche - il filosofo col martello - "la Ruota gira" e la
danza degli elementi continua, senza inizio né fine. Alla domanda
angosciosa "che c'è dopo la morte?", noi aggiungeremo l'altra - "e prima
della nascita?". Per noi, i cicli sono cominciati ben prima della nostra
nascita e continueranno ancora per molto dopo la nostra scomparsa, a
maggior gloria degli Dei. Taliesin, poeta gallese del Medio Evo, ha ben
illustrato quest'intuizione:
Sono stato rivestito di un'altra forma
Sono stato salmone azzurro
Sono stato cane. Sono stato cervo
Sono stato daino sulla montagna
Sono stato palo. Sono stato vanga
Sono stato scure salda in mano
Sono stato gallo variopinto
Signore di galline schiamazzanti
Sono stato stallone nella scuderia
Sono stato toro nella fattoria
Sono stato setaccio del mugnaio
Aia del coltivatore
Sono stato seme nel solco
Sono cresciuto sulla collina
Chi mi aveva seminato mi ha raccolto
Questo bel testo è più che sufficiente per concludere questa rapida
presentazione del Paganesimo. Ho voluto citare qui tutta una serie di
testi - da Eraclito a Vernant, da Cicerone a Romilly, non per pedanteria
ma per meglio mostrare che io sono soltanto una maglia di una catena
plurimillenaria. In realtà, io mi considero "parlato" da queste
testimonianze di una fede secolare, angariata, perseguitata, soffocata -
ma sempre rinascente e indomita.
--
"Il mondo non ha bisogno di dogmi ma di libera ricerca." (B. Russel)
questo articolo e` stato inviato via web dal servizio gratuito
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