Post by PorfirioSuppongo ti riferissi al mio post di qualche tempo fa.......
Lo studio della linguistica comparata,( scienza abbastanza recente, ) ha
messo in luce la parentela tra il sanscrito( lingua degli Aria), poi lingua
colta dell'India antica, e le prime lingue europee. Non si parla quindi di
presunzione di gruppi etnici, ma di certezze, visto il filo conduttore che
attraversa tutte le lingue che ora esporro'.Da cio' la ragionevolissima
ipotesi dell'esistenza di una "lingua antenata", dalla quale sarebbero
derivati, oltre al sanscrito, il greco, il latino, il tocario ( parlato
nella steppa russa da popoli ora estinti), l'iranico, l'ittita, l'armeno, lo
slavo, il balto, l'illirico, l'italico, il germanico e dulcis in fundo, il
CELTICO .
sull'enigma della patria originaria degli indoeuropei si è molto
discusso.Romualdi ad esempio la situa nell'Europa del Baltico.Altri nelle
steppe tra Mar Nero e Caspio.Uno studioso indiano,Tilak,nel suo
documentatissimo libro "la dimora artica dei Veda"la situa ancora più a
nord.
Comunque credo che sia interessante vedere i due capitoli seguenti tratti
dal libro"i Germani"di S.Fischer-Fabian.
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La straordinaria scoperta di Franz Bopp di Aschaffenburg.
Nell'autunno dell'anno 1812 un giovane lasciò la città di Aschaffenburg per
recarsi, un po' a piedi e un po' servendosi della diligenza postale, a
Parigi. Franz Bopp, così si chiamava quel giovanotto ventenne, aveva
studiato con grande impegno nella vecchia città sul Meno, che per qualche
tempo era stata sede universitaria. Aveva seguito le lezioni di diritto
naturale e internazionale, di logica, di estetica, e anche di storia e
filosofia. Ma lo avevano interessato soprattutto le lingue, le antiche
lingue dell'oriente.
Ex oriente lux, l'idea che tutta la luce, tutta la sapienza venga
dall'oriente, fu uno dei caratteri di quell'epoca che nella storia dello
spirito reca il nome di "Romanticismo". Si cercava nell'infanzia dei popoli
la divina origine, la vera natura dell'umanità. Si scoprì il fenomeno
originario, la pianta originaria, i miti, le favole originarie, si parlava
di saggezza originaria e ci si immaginava un popolo originario che, nel
lontano oriente, aveva parlato la lingua delle origini. Le relazioni che
giungevano dall'India facevano salire alle stelle il fuoco dell'entusiasmo
degli orientalisti.
Sir William jones, famoso orientalista e giudice al tribunale superiore di
Calcutta, aveva scoperto una lingua "più completa di quella greca, più ricca
di quella latina, e più raffinata di entrambe", che doveva essere più antica
di tutte le lingue conosciute, non escluso l'ebraico che sino allora era
stato considerato la lingua più antica. Era il sanscrito, l'idioma rituale e
dotto dei bramini,in cui viene scritto ancor oggi tutto quello che riguarda
arte e scienza: una lingua che ha prodotto capolavori come i due poemi epici
Mahabharata e Ramayana e un gioiello come il dramma Sakuntala.
Jones non solo tradusse da questa lingua, ma per primo comprese che doveva
esserci una certa affinità tra il sanscrito da un lato e il greco, il latino
e il germanico dall'altro.
Nel 1808 apparve in Germania uno scritto di Friedrich Schlegel, Uber die
Sprache und Weisheit der Indier (Sulla lingua e la sapienza degli indù).
Egli era riuscito, per un caso fortunato, a mettere le mani su manoscritti
originali e su traduzioni dalla letteratura sanscrita. Per un europeo, ciò
era estremamente difficile a meno che non avesse avuto facile accesso alle
grandi raccolte di Parigi e di Londra. Anche Schlegel era entusiasta del
sanscrito, come di una lingua in cui poesia e filosofia erano
indissolubilmente legate, che era ricca di sfumature e di immagini ed
appariva come il frutto di «un semplice e beato modo di vivere alla luce
della riflessione».
Egli vedeva nel sanscrito un apriti-sesamo della sapienza e del sapere
dell'oriente e ne profetizzò una influenza sulla storia dello spirito
europeo di poco inferiore, per durata e fecondità, a quella esercitata nel
Rinascimento dalla scoperta degli antichi scrittori. Anche a lui fu chiara
la parentela tra India ed Europa, ed elaborò un metodo di comparazione delle
lingue. Tuttavia ciò rimase nell'incerto e nel vago. Ma la spinta era
stata data, il grande compito era stato posto: bisognava servirsi della
lingua come fonte di conoscenza dei processi storici.
Chi avrebbe preso su di sé questo compito? Chi se ne sarebbe mostrato
all'altezza?
Quando Franz Bopp partì per Parigi, per andare in cerca della
paura -nient'altro, infatti, era il sentimento del giovane allorché si
trasferì da un minuscolo principato nella capitale della Grande Nation -,
egli voleva approfondire le sue conoscenze sulle lingue orientali e imparare
il sanscrito. I presupposti erano tanto poco favorevoli, quanto la
possibilità che la sua cultura gli avrebbe dato da mangiare. Bopp era il
sesto figlio di un modesto impiegato del principato di Magonza, uno
scritturale addetto
alle scuderie di corte, e come tale aveva solo l'indispensabile per il suo
soggiorno parigino.
Nonostante le guerre napoleoniche, Parigi era la città della gioia di
vivere, piena di vita, tentatrice e seduttrice, specie per un giovane che
veniva dalla provincia tedesca. Ma tutto ciò
non lo scosse affatto. O meglio - come alla fine del secolo ebbe così bene a
dire il suo biografo: «Determinato unicamente dalla sua aspirazione e come
reso immune dal sacro fuoco del suo desiderio, ignorò ben presto il tumulto
della grande metropoli, che stordisce lo straniero. Ciò che là stimolava e
incitava, lo spinse e lo incitò al lavoro»
Il più lungo poema del mondo
Passava i giorni nelle sale di lettura e nelle biblioteche, trascorreva gran
parte della notte sotto la lampada a olio, nella sua mansarda del Faubourg
St. Germain, «al quinto piano». Rinunciava anche al vino, che lì costava
così poco, e beveva acqua, che rendeva più gradevole con un pezzo di carbone
di legna ben bruciato.
Studiava l'arabo con Silvestre de Sacy, il più famoso orientalista del tempo
(insieme «con un danese e un mamelucco»), seguiva le lezioni di sinologia di
Rémusat e quelle di persiano tenute da de Chézy. E intanto cercava di
completare le sue conoscenze di francese. Ma quel che a Parigi ancora
mancava,
era una cattedra di sanscrito. Bopp dovette rivolgersi a grammatiche che
non meritavano questo nome ma solo quello di «tentativi di grammatiche», a
traduzioni abborracciate in lina inglese e a raccolte di parole messe
insieme da missionari.
Non si riesce a comprendere come sia possibile imparare in tali condizioni
una delle lingue più difficili. Sarebbe stato necessario conoscere già il
sanscrito per intendere quei testi. Bopp passava la maggior parte del tempo
a «decifrare e risolvere rebus» e a tirar fuori dai manoscritti la sua
grammatica e il suo vocabolario, manoscritti che erano di foglie di palma e
già solo per questo motivo difficilmente leggibili.
Occorreva inoltre essere in grado di stabilire quando si aveva a che fare
con una parola, perché i testi non separavano una parola dall'altra ma si
presentavano come una specie di enorme verme solitario, senza spazi né
stacchi. Un vero incubo... già per il solo fatto che il Mahabharata è
composto da
106.000 distici ed è pertanto il più lungo poema del mondo.
«Ma dopo che con molta fatica e infinita pazienza ebbi superato
l'inizio»,scrive Bopp con la sua abituale modestia, «e dopo che ebbi
imparato a riconoscere molte parole che ricorrevano spesso e a separarle per
bene,potei venire a capo del resto, essendo lo stile di per sé facile e
semplice
in tal modo imparai a intendere il sanscrito senza l'aiuto di traduzioni».
Franz Bopp ci offre, in questo momento, l'immagine dello studioso che non
distoglierebbe l'attenzione dai suoi studi quand'anche il mondo intorno a
lui dovesse sprofondare. Un Archimede che apostrofa l'importuno col suo
Noli turbare circulos meos, non disturbare i miei cerchi!
Parigi, durante il suo soggiorno, è occupata due volte dalle truppe
tedesche, inglesi e russe, ma il nostro studente nota solamente: «[ ... ]
malgrado tutti questi grandi avvenimenti, quest'inverno i miei studi non ne
hanno sofferto. Mi stanno troppo a cuore perché io possa farmi distogliere
dagli eventi
esterni».
Possiamo anche ridere di questo modo di studiare, ma era impossibile portare
a termine in modo diverso un compito, una fatica d'Ercole come quella che
Bopp si era assunta. Egli impersona lo studioso da tavolino, così spesso
disprezzato, senza la diligenza del quale, però, la genialità è
perfettamente inutile. E in questo caso particolare, anche il genio di un
Friedrich Schlegel.
Il 16 maggio 1816, dopo tre anni e mezzo di soggiorno a Parigi, Bopp
pubblicò un libriccino che non solo fondava una nuova scienza, ma che
rappresenta uno dei lavori più poderosi dei XIX secolo nell'ambito delle
scienze umanistiche. Reca il lungo titolo Del sistema di coniugazione
della lingua sanscrita comparato con quello del greco, del latino, del
persiano e del germanico, e mise a rumore in Europa il mondo dei dotti.
Ciò che per Herder era sentimento, fantasia, ciò che per Schlegel era
avvolto da mistica oscurità, anche se genialmente intuito, qui, attraverso
una fredda analisi, diventava oggetto di conoscenza. L'apparenza diventava
verità, la credenza scienza. Bopp col suo lavoro metodico aveva fatto una
scoperta sensazionale e l'aveva scientificamente dimostrata.
E cioè: che quasi tutte le lingue delle culture d'Europa sono strettamente
apparentate con l'indiano e col persiano dell'Asia.
Sembrano sorelle che sono bensì tra loro diversissime, ma che per certi
tratti mostrano una forte rassomiglianza. Questa affinità si era rivelata
quando Bopp si era messo a confrontarle fra loro.
Franz Bopp trascorse a Berlino gli ultimi anni della sua vita. Divenuto
professore universitario, fu amico di Wilhelm von Humboldt, venerato da
Jacob Grimm, invidiato dagli Schlegel, applaudito dal mondo scientifico.
Quando nel 1867 depose per sempre la penna, sulla sua scrivania venne
trovato un lavoro che aveva iniziato, sulla cui ultima pagina, con alcuni
esempi relativi alla scomparsa della «s» terminale nel gotico di fronte a
forme dell'antico alto tedesco, stava questa annotazione: «Si confronti
... ».
Furono le sue ultime parole scritte. Che possiamo interpretare come un
messaggio ai suoi discepoli: il confronto come inizio di tutto il conoscere.
L'opera a cui dedicò tutta la vita e che ci ha lasciato reca il titolo
Grammatica comparata del sanscrito, zendo, greco, latino, lituano, gotico e
tedesco. E' rimasta esemplare per molte generazioni di suoi colleghi, anche
quando diverse cose non reggevano più alla prova e alcune dovevano essere
corrette. Solo più tardi si rivelò quanto feconda fu l'influenza esercitata
dalla nuova scienza su altre discipline, quali antropologia, preistoria e
protostoria, storia delle religioni e storia del diritto.
Franz Bopp fu a poco a poco dimenticato. Le opere specialistiche menzionano
marginalmente il suo nome. Le pubblicazioni più recenti mostrano per lui
solo rispetto, un ossequio necessariamente dovuto a uno studioso il cui
merito è indiscusso, ma i cui errori ed errate interpretazioni non possono
essere ignorati. Gli epigoni dimenticano che i grandi uomini spesso fanno
sentire la loro influenza anche quando sbagliano. Bopp appartiene inoltre a
quella schiera di uomini che né in vita né in morte hanno trovato chi
proclamasse e continuasse a proclamare i loro meriti. Una ragione di più,
questa, per occuparsi seriamente di lui e del suo metodo. In fondo noi
dobbiamo a Franz Bopp una più precisa conoscenza dei nostri lontani
antenati.
Come si porta alla luce una lingua
«Si confronti ... ».
Si confronti, ad esempio, la parola tedesca Mutter (madre) con il latino
mater, il germanico mothar e il greco-dorico mater. Qui lo stesso concetto
suona quasi nello stesso modo.
La cosa si fa ancora più sorprendente se si continua a confrontare. Ne
risulta, infatti, che Mutter nell'antico indiano si dice mata, nell'antico
iranico matar, nel persiano moderno madar, nel lettone mate, nell'antico
bulgaro mati. Ci si chiede: cosa possiamo avere in comune con popoli da noi
così
lontani geograficamente e culturalmente?
Ma andiamo avanti. Schwester (sorella) in inglese si dice sister, in
francese soeur, in latino soror, nell'antico alto tedesco swester, in gotico
swista, nell'antico slavo sestra e nell'indiano antico svasa. Oppure la
parola Bruder (fratello): nell'antico alto tedesco bruoder, nell'antico
indiano bhrata, nell'antico persiano bratar, in lituano broter. Dappertutto
troviamo delle parole sorprendentemente simili per indicare il medesimo
concetto.
L'affinità tra queste lingue non si evidenze solo nel lessico corrente. Si
rivela anche, ed è ben più importante, nella grammatica. Per quanto
riguarda il lessico, infatti, possiamo obiettare che una lingua, per
mancanza di propri concetti, abbia preso in prestito da un'altra alcune
parole; ma questa obiezione non è valida per la grammatica.
Se tutte queste lingue erano apparentate come lo sono fratelli e sorelle, si
dovrebbe logicamente supporre che hanno avuto una madre comune. Così come
il latino divenne in seguito la madre delle lingue romanze. Ma la lingua
madre del greco, del germanico, del celtico, dell'indiano, dello slavo,
dell'iranico ecc. non esiste più. Prescindendo pure dal fatto che nessuno
la parla più, non la si trova nemmeno su pergamene, su antichi documenti,su
pietre tombali, su lapidi commemorative
Ma i linguisti hanno saputo trarsi d'impaccio. Se questa lingua non
esisteva più, era però possibile ricostruirla artificialmente come in una
storta. Oppure, per usare un altro esempio :così come gli archeologi
scendono strato per strato nel passato, i glottologi sono risaliti alle
origini, vale
a dire alle forme lessicali più antiche delle singole lingue. E là hanno
trovato la loro Troia, la
loro Micene, la loro Cnosso. Erano scoperte che non interessavano nessuno
al di fuori dell'ambito specialistico, perché apparentemente non avevano
nulla di sensazionale, ma in realtà, per valore e importanza, non erano
inferiori ai ritrovamenti archeologici.
Il cammino linguistico per giungere alle forme originarie è oltremodo
difficile e complicato. Si tratta, infatti, di riconoscere le leggi del
mutamento. Nel corso dei secoli i suoni si sono appunto mutati.
Ad esempio, l'espressione neues Haus (casa nuova) nel medioevo suonava
niuwes hus. In queste due parole, iu si è tramutato in eu e u in au.
Questo mutamento lo si può notare regolarmente nel passaggio dal medio alto
tedesco al nuovo alto tedesco.
«Queste transizioni di suoni»,dice il linguista Hanse Krahe,«che avvengono
con una tale regolarità - e naturalmente a poco a poco senza essere
avvertiti dai parlanti la lingua - sono chiamate leggi fonetiche
.Costituiscono uno dei principali strumenti nel lavoro di ricerca della
linguistica comparata, e agiscono in tutte le lingue e in ogni tempo».
Quando siano state riconosciute queste leggi, il cammino per la
ricostruzione della parola originaria in questione non è più tanto lungo.
Comparando le singole parole significanti Bruder (fratello) -
bruoder,broter, bratar, bhrata - e considerando le transizioni di suoni
avvenute in altre parole, si giunse alla forma bhrater quale parola
originaria. Ma siccome questo termine è un prodotto artificiale e non
dimostrabile, i
linguisti, per distinguerlo dalle parole «reali», l'hanno fornito di un
asterisco: *bhrater.
La lingua delle origini, da cui proviene questa parola, la denominarono
indogermanico.
Il Cammino verso le antiche madri
Il vero padrino di battesimo è l'orientalista berlinese Heinrich
Klaproth.Egli diede alla famiglia delle lingue or ora scoperta il nome dei
suoi membri orientali e occidentali: quello degli indiani e quello dei
germani.
Da qui è nato il termine tecnico «indogermanico». La ricostruzione di
questa lingua ha compiuto intanto notevoli progressi. Tuttavia non tali da
consentire che essa, come avviene per il latino, potesse essere parlata
correttamente. Come appunto accade agli archeologi nel lavoro di
ricostruzione di qualche edificio antico: mancano moltissime pietre e
pertanto alcuni pilastri possono essere eretti solo con la fantasia.
L'indogermanico rimane allo stato di schema, il che non toglie che si sia
riusciti a dimostrarne l'esistenza come lingua madre da cui più tardi le
singole lingue si staccarono divenendone indipendenti.
Seguire questo «cammino a ritroso», dal concetto attuale alla parola
originaria, è per l'esperto un piacere altrettanto vivo quanto quello del
matematico che in una complessa equazione intravvede la soluzione. Ma anche
il profano può sentire il brivido di gioia che una tale «formula
linguistica» comunica.
Ma quali lingue appartengono all'indogennanico, alla maggiore famiglia
linguistica della terra?
Una delle più antiche è il greco, la cui tradizione risale fino al xv secolo
a.C. Per il mondo occidentale la lingua più importante e storicamente più
significativa è il latino. Ne sono nati l'italiano, lo spagnolo, il
portoghese, il retoromanzo (parlato ancora oggi da ladini,
grigioni,friulani) e il rumeno. Il baltico è vivo nel lituano e nel
lettone.
L'illirico e il trace sono estinti. Esiste ancora l'albanese. Viva e
vegeta è la figlia slava col ceco, lo slovacco, lo sloveno, il
serbocroato,il polacco, il bulgaro, il russo bianco, l'ucraino, il russo.
Delle lingue
celtiche oggi si parla ancora l'irlandese e il gaelico (in Scozia e
Irlanda), il cimrico (nel Galles) e il bretone (nella Bretagna). Seguono le
lingue germaniche con l'inglese, il frisone, l'olandese, l'islandese, il
norvegese, il danese, lo svedese, la lingua delle isole Faer Oer e il
tedesco.
In Asia ci imbattiamo in altri parenti: le lingue ariane del ramo iranico
(che vive ancora nell'odierno persiano, nel curdo,nell'afgano, nel beluci,
nei dialetti del Pamir e del Caucaso) e del ramo
indiano a cui appartengono il vedico (la più antica lingua indiana) e il
sanscrito. Vi si aggiunga l'armeno, la cui tradizione comincia col v secolo
d.C.
I glottologi ritenevano con ciò di conoscere tutte le lingue
indogermaniche.Ma nel 1906 accadde qualcosa di sensazionale. In quell'anno
l'assiriologo tedesco Hugo Winckler portò alla luce, dalle rovine presso il
villaggio turco di Boghazkóy, una intera biblioteca. Essa era costituita da
migliaia
di tavole d'argilla coperte di caratteri cuneiformi. Alcuni anni più tardi
il ceco Friedrich Hrozny riuscì a decifrarle. Le tavole parlavano dello
scomparso popolo degli ittiti, che nel secondo millennio prima dell'era
volgare avevano fondato un potente impero in Asia Minore. Ma le tavole
rivelavano un'altra cosa: gli ittiti parlavano una lingua indogermanica.
Gli indogermani: un popolo emerge dall'oscurità
L'indogerrnanico era stato strappato al passato: si era potuto ricostruire
una nuova lingua. Ma purtroppo nessuno poteva dire chi avesse parlato
questa lingua. Una cosa era comunque chiara: se tutti gli idiomi
riconosciuti come indogermanici avevano in comune una lingua madre, ci
doveva pur essere stato un popolo che parlava questa lingua.
Gli indogermani sono dunque esistiti.
Ma quando sono vissuti? Dov'era la loro patria? Che aspetto avevano? Che
civiltà era la loro? Quali strutture politiche ed economiche avevano
creato? Quali dèi adoravano?
Una quantità di domande cui nessuno era in grado di rispondere: né gli
antropologi, né gli archeologi, né gli studiosi di preistoria, né gli
storici delle religioni e del diritto. I glottologi si erano cacciati nei
guai e dovevano dunque sbrigarsela da soli. E così fecero.
Essi partirono dal presupposto che se le parole esistevano, anche le cose da
esse indicate dovevano essere conosciute. Si trattava dunque di ricostruire
molte «parole originarie» e con esse piano piano, come in un puzzle, dare un
volto a questo popolo misterioso.
Così si esprime il germanista Adolf Bach: «Ogni lingua denomina nel suo
lessico solo quelle cose del mondo circostante e solo quei fenomeni del
mondo spirituale che hanno importanza per quelli che la parlano. Essa
pertanto non è solamente uno specchio del mondo degli uomini, ma ci permette
di conoscere anche i loro interessi e la loro mentalità. Conferendo un
particolare contenuto ai concetti rappresentati dalle parole, essa
costruisce una immagine del mondo che appartiene solo a coloro che la
parlano, perché nelle parole sono contenuti i valori nei quali si manifesta
la natura e il carattere di una comunità linguistica».
Ciò che i glottologi intendevano fare con gli indogermani era, né più né
meno, come se oggi qualcuno cercasse di creare un'immagine dei bavaresi
basandosi soltanto sul dialetto bavarese. Un'impresa certamente
difficile,ma non impossibile.
Sono le cose del vivere quotidiano che si offrono per prime alla nostra
attenzione, le semplici cose che, come è noto, sono le più importanti.
Ecco la parola tedesca Kuh (vacca). Nell'antico alto tedesco si dice
chuo,nell'antico indiano gauh, in armeno kov, in lettone guows. Poi la
parola Joch (giogo): in gotico iug, in latino iugum, nello slavo antico
igo,nel persiano moderno iug, nell'antico indiano yugam, nell'antico alto
tedesco joh, in lituano iungas. Le due parole si presentano in quasi tutte
le lingue indogermaniche e hanno la
stessa derivazione etimologica. La medesima cosa avviene per la parola
Achse (asse): in latino axis, in greco axon, nell'antico indiano aksah;
Rad (ruota): in latino rota, in lituano ratas, nell'antico indiano rathas; e
Nabe (mozzo): nell'antico alto tedesco naba, nell'antico prussiano
nabis,nell'antico indiano nabhis.
E' facile concludere che tutte queste cinque parole già esistevano nella
lingua madre e che pertanto gli indogermani-poiché dove ci sono le parole ci
sono anche gli oggetti corrispondenti - conoscevano la vacca come animale da
tiro, che per mezzo del giogo veniva attaccato al carro. Cosa
semplicissima. Sì, ma solo dopo un lungo cammino.
Non sempre con questo metodo le cose vanno così lisce. Per giunta, come
abbiamo già detto, troppe cose sono andate perdute. Occorre inoltre far
attenzione a non imbattersi, senza riconoscerli, in «prestiti
linguistici»,parole che solo molto tardi sono passate da un popolo a un
altro. E non
bisogna dimenticare che il significato concettuale di una parola spesso
cambia nel corso della storia: una parola, cioè, può assumere un significato
completamente diverso. Le parole Brief (lettera) e schreiben (scrivere),per
esempio, i tedeschi le hanno avute dai romani, perché i nostri antenati,
che non conoscevano né la letteratura né lo scrivere, non ne avevano
necessariamente il concetto. Qui non possiamo certamente indicare un comune
possesso all'origine; la somiglianza indica solamente che i popoli in
questione hanno avuto rapporti tra loro.
I glottologi dispongono di strumenti adatti a evitare questi pericoli. E
pertanto, con l'aiuto del metodo storico-linguistico, possiamo tratteggiare
un quadro abbastanza perspicuo degli indogermani. Questo lavoro da
investigatori ha compiuto nel corso degli anni tali progressi che, già alla
fine del secolo scorso, poteva apparire un Reallexikon der indogermanischen
Altertumskunde (Enciclopedia dell'antichità indogennanica),che dalla A alla
Z illustra chiaramente il lessico indogermanico.
Quando la donna si chiamava «signora delle mandrie»
Se i germani sono nostri antenati, dobbiamo considerare gli indogermani come
i nostri antenati più antichi. Cosa sappiamo, dunque, dei padri dei nostri
padri? Tutto fa credere che siano stati un popolo di pastori che però
conosceva anche una forma primitiva di agricoltura. Allevavano
prevalentemente bovini e ovini. Si nutrivano quindi di carne, bollita e
arrostita, di latte, di formaggio, siero e, boccone fine, il midollo delle
ossa. Così anche il vestiario, dove la pelle e la lana di pecora avevano la
prevalenza.
Le greggi erano più grandi di quanto comportasse il fabbisogno personale.
La spesa era acquistata col bestiame, che era mezzo di scambio, di
valutazione; il bestiame era perciò divenuto una specie di precursore del
denaro. Ed è appunto in rapporto a tutto ciò, che l'indagine
storico-linguistica ci conduce a risultati stupefacenti.
Dal latino pecus, «bestiame», deriva pecunia, che non significa altro che
«denaro». I bovini, e prima ancora gli ovini, avevano dunque un significato
pecuniario: e va notato che, nell'indogermanico, il concetto generale per
indicare l'animale domestico deriva dalla radice *pek, che significa
«strappare, tosare», la qual cosa si riferisce solo alle pecore.
Il cavallo era forse più importante della pecora e del bue.Poteva essere
cavalcato, veniva attaccato al carro da guerra, si offriva agli dèi nelle
solenni feste sacrificali, se ne dava il nome ai
propri figli, si adorava persino una coppia di fratelli in figura di
destrieri. Non a caso lo ritroviamo più tardi presso i germani come animale
oracolare.
Vivendo soprattutto come pastori, gli indogermani non erano un popolo
sedentario, ma cambiavano luogo a seconda dei pascoli. E' per questo che
nella loro lingua non troviamo nessuna espressione per «patria», ma solo
parole come «schiatta», «parentela», «famiglia». Un sentimento della patria
nacque solo presso popolazioni sedentarie che praticavano l'agricoltura.
I loro insediamenti rispondevano alla loro vita di nomadi. Si accampavano
in villaggi-rifugio appositamente disposti in cerchio e formati da un
insieme di capanne, o meglio di abitacoli sotterranei, i cui pali d'angolo
venivano congiunti con tralicci cosparsi di argilla. Che già conoscessero
l'uso della porta (Túr), si capisce dalla successione linguistica che
accanto all'antico indiano dvarah evidenzia il lituano durys, il greco thyra
e il gotico daur. Le capanne erano riscaldate e illuminate da un focolare
aperto sopra il quale pendeva una marmitta di terracotta. Mobili, tavoli e
seggiole erano sconosciuti.
L'ordinamento sociale riposava sul diritto della patria potestà, ciò che
allora non poteva significare altro che «il padre ha sempre ragione». La
qual cosa si palesa nel potere, nella patria potestas, sulle donne, sui
figli, sui fratelli più giovani e sui nipoti, che vivevano in una grande
famiglia patriarcale. Nel matriarcato, invece, dominante in Europa prima
degli indogermani, il ruolo sociale preminente spettava alla donna.
Come già abbiamo visto relativamente alle parole Schwester (sorella) e
Mutter (madre), il metodo della comparazione linguistica funziona
particolarmente bene per i nomi indicanti parentela. Così Sohn
(figlio) corrisponde al gotico sunus, all'antico indiano sunuh, al lituano
sunus; Tochter (figlia) al gotico dauthar, all'antico indiano duhita, al
greco thygater. E così via.
La sposa veniva dunque comprata. E quando Omero attribuisce a un buon
partito l'appellativo di «signora delle mandrie», veniamo a conoscere anche
il prezzo. La lingua slava ci rivela comunque che presso altri popoli
indogermanici i bovini potevano essere sostituiti da pelli pregiate:
vergine in russo antico si dice kunka, appunto perché veniva pagata con la
pelle del kuna, cioè della martora.
Chi non voleva pagarsi la moglie, doveva rapirla. Sia nel rapimento sia
nell'acquisto, essenziale era la presa di possesso che avveniva portandosi a
casa la sposa come dimostrazione di una proprietà inalienabile. Il che
appare ancora nella parola tedesca Múndel (pupilla), e munt nell'antico alto
tedesco significa appunto «mano». Quantunque si dovesse pagare un alto
prezzo per le donne, non si dava loro probabilmente una grande importanza.
Con sorpresa non riusciamo a trovare nessuna parola che indichi il concetto
di «matrimonio». Ciò non puo significare che non esistesse il matrimonio.
Ma solo che non si vedeva in esso un patto di due persone uguali, bensì lo
si considerava soltanto dal punto di vista dell'uomo. Sposare significava
perciò «condurre alla maternità», oppure «procurarsi una donna», o
addirittura «porsi al servizio di un uomo».
La prova delle palafitte
Gli indogermani conoscevano il fuoco, solcavano le acque con barche a
remi,usavano nel calcolo il sistema decimale, e siccome avevano una parola
per «comprare» il commercio non doveva esser loro sconosciuto. Adoravano un
padre celeste come dio supremo, la qual cosa ben si addice a una società
fondata sulla patria potestà. A questo riguardo vediamo che il greco Zeus
pater corrisponde al Diespiter /Iupiter latino e al dyaus pita dell'antico
indiano.
Usavano strumenti di pietra. L'antico alto tedesco sahs, cioè Schwert
(spada), è imparentato col latino saxum, «pietra». La parola sahs può aver
indicato un coltello di pietra. Anche il nordico antico hamarr, che
significa nello stesso tempo Hammer (martello) e Fels (roccia), pone un
legame tra l'utensile e il materiale di cui era fatto. Si tratta di
parallelismi che fanno nascere spontaneamente la domanda: quando son vissuti
gli indogermani?
Si sa che i gradi di sviluppo della civiltà umana sono indicati dal
materiale con cui si facevano arnesi e armi. Nell'età della pietra si usava
la pietra, in quella del rame (che fu breve) il rame, in quella del bronzo
il bronzo, in quella del ferro il ferro. L'età della pietra che ora ci
interessa si distingue in antica età della pietra (il paleolitico che va
circa dal 200.000 al 10.000 a.C.), in media età della pietra (il mesolitico
che va circa dal 10.000 al 4500 a.C.) e in recente età della pietra (il
neolitico) che durò all'incirca fino al 2000 a.C.
Per quanto riguarda le date i linguisti furono aiutati dagli archeologi. Si
poté constatare con stupore che l'eredità culturale che veniva alla luce con
l'aiuto della vanga e che concordemente veniva datata come appartenente alla
nuova età della pietra, corrispondeva in tutto a quella che i linguisti
avevano scoperto col metodo comparativo. Fu un trionfo per la scienza
fondata da Bopp, che era stata considerata con un po' di sospetto come
accade sempre quando si tratta di giovani discipline.
Otto Schrader, l'autore del Reallexikon der indogermanischen Altertumskunde,
poteva perciò scrivere nel 1901, sulla scorta di un esempio recente, che «la
cultura del periodo finale dell'età della pietra venuta alla luce nelle
antichissime palafitte della Svizzera corrisponde suppergiù a quel grado di
civiltà che, col metodo storico-linguistico, possiamo desumere come quello
dei più antichi indogermani europei. Risulta chiaramente che gli elementi
più importanti di quella antichissima cultura
palafitticola, come ad esempio gli animali domestici o le piante coltivate
oppure le arti del cucire, del filare, del tessere colà esercitate, sono
documentabili anche col metodo linguistico comparativo, mentre per le cose
che non sono state rinvenute e la cui esistenza in quel tempo non è stata
provata, come avviene ad esempio per l'asino, il mulo e il gatto e per la
segala e la canapa, mancano
le prove linguistiche nel lessico dei primordi dell'età indogermanica
europea».
Gli indogermani non avevano parole per indicare «il rame», «il bronzo», «il
ferro». E qui le lingue derivate presentano denominazioni attraverso le
quali non è possibile risalire alla parola indogermanica originaria. Di
conseguenza, ciò significa che gli indogermani primordiali avevano
cominciato a dividersi in singoli popoli già prirna dell'età dei metalli:
probabilmente intorno all'anno 2500 a.C. La grande epoca di questo popolo
risale quindi al III millennio.
Le contese dei dotti e la culla dei popoli
Dov'è dunque vissuto questo popolo avvolto nel mistero, scoperto grazie alle
sottili indagini della scienza del linguaggio, dal quale provengono anche i
germani? Intere generazioni di dotti si sono accapigliate intorno al
problema della patria originaria degli indogermani. I congressi si
trasformavano in tumulti, gli studenti delle diverse tendenze venivano alle
mani, e nelle cittadine universitarie tedesche le mogli dei professori non
si salutavano più se i loro mariti appartenevano a schieramenti diversi. E
la contesa dura ancor oggi. Si susseguono sempre nuove ipotesi su
quell'angolo d'Eurasia in cui si è sviluppato un popolo che come nessun
altro ha influito sulla storia del mondo.
Le diverse teorie possono dividersi in due gruppi principali:
1) gli indogermani venivano dall'Europa e di là si mossero per occupare le
loro sedi posteriori;
2) gli indogermani avevano la loro patria in oriente,muovendo dalla quale, a
ondate successive, si trasferirono nelle terre dell'Europa, dell'Asia
Minore, dell'India.
La seconda teoria è stata per lungo tempo la sola ritenuta valida,confortata
com'era dalla concezione derivante dal Romanticismo, per cui dall'oriente
non è venuta solo la sapienza, ma l'umanità intera. Là in Asia sta la culla
dell'uomo, la patria dei popoli, affermava già Johann Gottfried Herder. Non
vediamo forse che tutte le grandi migrazioni di popoli hanno seguito il
cammino da oriente a occidente? I mongoli vennero dall'oriente, la bufera
degli unni soffiava da est a ovest, gli avari, i turchi, gli sciti
percorsero la stessa strada. Ma le analogie da sole non dimostrano nulla, e
i poeti possono dare il via a grandi cose, ma senza la scienza non si giunge
a un quadro preciso.
In seguito si diede la preferenza al territorio intorno al Mar Caspio, alla
Scandinavia meridionale e al bassopiano tedesco settentrionale. Una teoria,
questa, che negli anni trenta ricevette il carisma di una verità
incontrovertibile. Era quel che ci voleva in un'epoca in cui i «signori del
nord» erano considerati l'origine di tutte le cose. Era così allettante
identificare gli indogermani coi germani, rappresentarseli biondi, con gli
occhi azzurri, dolicocefali, riconoscerli bellicosi, valorosi, temprati nei
pericoli e vedere nell'Europa nordica il punto di partenza delle più
importanti migrazioni della storia,
Tutte le altre migrazioni», affannava sarcasticamente a questo proposito lo
storico delle civiltà Victor Hehn alla tine del secolo scorso, «andarono da
est a ovest, recando in occidente nuove forme di vita insieme a tanti
disastri; solo la più antica e la più grande andò nella direzione contraria
e sommerse steppe, deserti, montagne e le terre del sole, in una espansione
immensa».
Non è facile vedere nel limitato territorio del Baltico la «Camera delle
nazioni», anche a voler prescindere dal fatto che un popolo di pastori, come
la tribù scoperta dalla linguistica, non avrebbe potuto certo trovare qui le
condizioni ideali per le sue grandi greggi.
Ma c'è un'obiezione ancora più grave: se la patria originaria degli
indogermani fossero state veramente le terre del Baltico e i germani si
identificassero con gli indogermani, la lingua dei germani dovrebbe
essere,fra tutte le lingue derivate, quella che rassomiglia di più a sua
«madre»,alla lingua indogermanica ricostruita dai glottologi. Una
conclusione logica che non è avvalorata dai fatti. La lingua germanica,
specialmente nelle consonanti, nell'accentazione, nei costrutti, si
distingue infatti così fortemente dall'indogermanico come nessun'altra
lingua indogermanica. E' inoltre difficile capire come mai un popolo che
abita
vicino al mare non faccia alcun riferimento, nel suo lessico, alla
navigazione.
Per confermare le teorie del momento si fecero intervenire
biologi,climatologi, zoologi. Fu stabilito che gli indogermani, siccome
avevano parole per indicare la neve e il ghiaccio, la primavera, l'estate e
l'inverno, dovevano risiedere in una zona di «clima temperato». Ma con ciò
si andava poco lontano. Tale clima era ed è prevalente in troppi luoghi
della terra. E la stessa cosa accadeva per la fauna: non è giusto ritenere
che, siccome mancano i nomi di certi animali, quell'antichissimo popolo non
possa aver vissuto là dove ci sono tigri e leoni. Scomodarono anche
l'ape,in quanto si esclusero subito come patria originaria le regioni in cui
questo insetto non compare e nelle quali fu introdotta posteriormente. Il
miele infatti era noto agli indogermani e con esso l'idromele. Purtroppo
c'è motivo di sospettare che presero la parola designante il miele
dall'ugro-finnico.
Da prendersi più seriamente era invece l'argomento fondato sulla parola
Buche (faggio). Dall'etimologia si sapeva che questo termine era presente
in cinque lingue. Pertanto gli indogermani dovevano aver vissuto in un
clima adatto a questo albero, e cioè a ovest della linea Koenigsberg-Crimea,
tracciata dai botanici. Ergo, a oriente di tale linea gli indogermani non
possono aver avuto la loro sede. Una prova evidente, in apparenza, che però
perde la sua forza quando ci si chiede se i singoli popoli indicavano con
la parola suddetta il medesimo albero, e questo è dubbio. Anche oggi
conosciamo due alberi completamente diversi con il nome di Buche: il faggio
rosso (Rotbuche) incrociato con la quercia, e il carpine
(Hainbuche)incrociato invece con l'ontano e la betulla.
Nessuna delle teorie sin qui ricordate e nessun argomento addotto per
sostenerle possono persuadere. Il «partito dell'Asia» ebbe la meglio per
lungo tempo, ma fu poi battuto dal «partito dell'Europa», che dopo esser
stato soppiantato al vertice balzò di nuovo decisamente in avanti con la
teoria del salmone. Siccome la parola Lachs (salmone) è stata riconosciuta
come parola originaria (*laksos) e il pregiato pesce non si trova nei fiumi
che sboccano nel Mar Nero e nel Mediterraneo, ma in quelli che sfociano nel
Mar Baltico e nel Mare del Nord, si concluse acutamente che la patria
originaria si estendeva nel territorio compreso tra i fiumi Vistola,Oder,
Elba e Weser.
La «questione della patria» non è stata affatto risolta in modo
soddisfacente. Anche perché non è possibile dare una risposta con i soli
mezzi dell'etimologia. Certo il metodo della comparazione linguistica
ideato da Bopp ha condotto a risultati insperati, ma in fondo tali risultati
dovevano restare un prodotto di laboratorio, cioè artificiale.
Sappiamo che gli indogermani usavano prevalentemente utensili di pietra,
costruivano case, si adornavano con l'ambra, tessevano i loro abiti e
macinavano i cereali. Ma non sappiamo come erano fatti questi utensili, le
case, gli ornamenti, gli arcolai, i telai e le macine. Qui il glottologo
non può giungere. Ha bisogno di aiuto.
«E questo aiuto poteva venire solo dalla preistoria, dalla ricerca sul
terreno. Anche il glottologo, quando si occupa dell'era indogermanica, è
uno "studioso di preistoria", e pertanto deve incontrarsi, lavorando nello
stesso campo, con l'archeologo. Oggi è verità comunemente accettata che la
questione degli indogermani può trovare la sua soluzione solo nella
collaborazione tra archeologia e glottologia».
Otto Schrader scrisse queste parole nel 1911, e con logica stringente
concludeva ponendo questo compito preciso: «Ci sono chiaramente due metà
nella nostra conoscenza scientifica, che devono comporre una unità
perfetta.Per quanto riguarda la questione della patria originaria degli
indogermani,
il nostro compito è il seguente: nell'ambito delle culture preistoriche
dobbiamo individuarne una che corrisponda ai presupposti evidenziati con
strumenti linguistici. E' molto probabile che tale cultura sia quella
indogermanica e che i suoi esponenti siano gli indogermani».
Per poter assolvere questo compito, dobbiamo trasferirci in un tempo
lontano, intorno al 2000 a.C.
IV - ASCIA Di GUERRA E TOMBE DEI GIGANTI
La Germania quattromila anni fa
Circa quattromila anni fa, nell'Europa settentrionale, l'età della pietra
stava per finire. Comparve il bronzo, che a poco a poco sostituì la pietra
come materiale per fabbricare utensili e armi. Proprio in questa epoca il
processo di dissolvimento della comunità indogermanica era già molto
avanzato. Sappiamo infatti che nell'età dei metalli gli indogermani erano
già divisi.
L'Europa settentrionale era dominata allora dalla cultura megalitica. Così
l'hanno chiamata gli studiosi di preistoria mancando nella tradizione nomi
di popoli - dai resti imponenti: tombe costruite con enormi pietre.
Questa cultura è rappresentata da un popolo che ha fatto un passo notevole
nello sviluppo dell'umanità: il passo che trasformò l'uomo da cacciatore e
raccoglitore in contadino sedentario. Questo popolo non cacciava più gli
animali, ma li teneva in stalle e li portava al pascolo; non raccoglieva più
le granaglie, ma le seminava per riaverle poi centuplicate; risiedeva in
comunità di villaggi e arava territori sempre più grandi. L'aratro, tra le
invenzioni umane, fu la più benefica.
Gli uomini vivevano ormai di ciò che il campo donava loro. Era
logico,dunque, che immaginassero gli esseri superiori solo in forma di dèi
della fertilità. Anche il loro culto dei morti non era rivolto che alla
benedizione della terra.
Nel processo storico che condusse al formarsi dei «primi tedeschi», gli
agricoltori della cultura megalitica hanno partecipato in modo
essenziale,nel vero senso della parola. Le tracce che essi hanno lasciato
ai posteri sono riconoscibili non solo dagli specialisti, ma ci vengono
incontro dappertutto nella Germania settentrionale: tra il Weser e l'Ems,
nello Schleswig-Holstein, nell'Oldenburgo e in ogni parte della Scandinavia.
Stiamo parlando di quelle enormi costruzioni di pietra che hanno dato il
loro nome
a quel periodo, giacché mégas in greco significa «grande» e líthos «pietra».
Nel linguaggio popolare queste costruzioni furono dette «tombe dei giganti».
Chi altri se non degli uomini giganteschi, si pensava, avrebbero potuto
trascinare simili massi erratici dal luogo di rinvenimento per erigerli a
farne delle tombe?
Questa gente deve aver impiegato una parte considerevole della capacità
lavorativa dei loro servi per questa opera. Essi risolsero non solo il
problema del trasporto, ma furono anche in grado di spaccare il granito:
praticando dei fori rettangolari nel granito, introducevano dei cunei di
legno che poi bagnavano con acqua. Il legno si gonfiava e apriva il blocco
nel senso della vena. Questo lampo di genio l'avevano già avuto gli
egiziani quando eressero le piramidi.
Con i blocchi così dimezzati si costruivano le pareti laterali della camera
funeraria. Per la copertura si usavano specialmente dei massi grandi e
piatti. Sul tutto, poi, si ammassava una collinetta di terra che era
sostenuta da pietre.
Si calcola che il peso dei massi più grandi sia di migliaia di quintali; un
peso enorme, che un moderno autocarro avrebbe difficoltà a trasportare. Ma
bisognava pur trasportarli, e spesso per lunghi tratti, dato che era
pressoché impossibile trovarli proprio nel luogo in cui si voleva erigere la
tomba, soprattutto in quantità necessaria e grandezza voluta. Numerose sono
le teorie a questo proposito, più o meno convincenti. La più accettabile
sembra quella secondo la quale si facevano muovere in avanti i massi per
mezzo di rulli di legno che scorrevano su tronchi d'albero disposti a mo' di
binari. Come forza da traino venivano impiegati i buoi; come gru, per
collocare le pietre sui «binari» e poi innalzarle a formare la tomba, ci si
serviva di un ingegnoso quanto semplice sistema di leve costituito da
alberi, travi e cunei.
Poiché le colline di terra ammassata sopra le pietre nel corso dei millenni
furono erose dagli agenti atmosferici e nell'interno non si rinvennero né
scheletri né altro, le tombe furono a lungo ritenute «mense sacrificali» o
«altari». Ma esse erano state semplicemente saccheggiate dai tombaroli o
devastate da archeologi dilettanti. Come «cave dei giganti» - espressione
davvero macabra - furono
usate per costruire strade o utilizzate nelle fondamenta di porcili e
granai. E un fatto che nulla appare meno sacro agli uomini delle tombe
degli avi, quando siano abbastanza antiche, quando i morti che dormono in
pace siano divenuti un reperto di valore e quando lo loro pietre tombali
siano diventate un apprezzato materiale con cui si possa avviare persino un
fiorente commercio.
Si calcola che solo nel XIX secolo in Germania furono distrutte cinque o
seimila tombe megalitiche. Nel circondario di Uelzen, nel «verde cuore
della brughiera», nel 1850 c'erano ancora 219 tombe. Oggi sono esattamente
17! E la maggior parte di esse è stata gravemente danneggiata. Alla testa
dei vandali hanno marciato quelli della Bassa Sassonia, che, a giudicare dal
loro «inno nazionale», sono tempestosi e terrigeni e si sono sempre ritenuti
i più tedeschi tra i tedeschi: «Salute, o schiatta del duca Wittekind!». La
realtà, però, ci offre un altro volto. Né deve essere sottaciuta la
partecipazione della Chiesa all'opera di devastazione generale: i parroci
maledivano le costruzioni di pietra come «pergami del demonio», «letti del
demonio», «cucine del demonio», «cupole dei pagani», «stanze dei pagani», e
diedero via libera alla distruzione.
In Danimarca, comunque, vennero rinvenute le prime camere funerarie intatte,
e con questa scoperta la favola delle «mense sacrificali» finì per sempre.
A volte vi trovarono cinquanta, settanta, persino cento scheletri.
Essi giacevano, e ciò si dimostrerà una osservazione importante, distesi
supinamente sul terreno lastricato della camera. Una camera che col tempo
era divenuta la stanza dei giganti, o una tomba a corridoio nella quale
intere generazioni di contadini avevano trovato l'ultimo riposo.
In fondo erano mausolei, monumentali tombe di famiglia, in cui si visitavano
i defunti e si veneravano gli antenati. I morti non erano
morti,continuavano a vivere nell'aldilà. Affinché vi potessero giungere
agevolmente, venivano riforniti di provviste per il viaggio contenute in
recipienti di argilla. Gli uomini portavano con sé le loro armi e i loro
migliori utensili,le donne i loro ornamenti e i loro arredi più preziosi:
anche nell'altro mondo si voleva essere qualcuno e rappresentare qualche
cosa.
I contadini dell'età megalitica erano consapevoli di sé, orgogliosi, certi e
sicuri del proprio valore. Qualità che meritarono loro, da parte di alcuni
storici, la designazione di «popolo dominatore», un concetto che è tanto
esagerato quanto fu amato negli anni trenta.
Anche espressioni come «aristocrazia contadina» o «nobiltà contadina» devono
essere accolte con diffiden a. Ma è indubbio che questi agricoltori
rappresentarono qualcosa di singolare già per il fatto che, usando l'aratro
diversamente dai cacciatori e dai raccoglitori, erano in grado di tenere la
fame a lungo lontana e di crearsi un capitale sotto forma di
allevamenti,prodotti della terra e materie prime.
Il viandante che oggi si imbatte in una delle loro tombe, si sottrae a
stento al sentimento che desta in lui. Specie nella solitudine della
brughiera, dinanzi a queste pietre gigantesche circondate dal ginepro si
avverte quel brivido che solo i testimoni dell'eternità sanno dare.
Che queste costruzioni ciclopiche fossero state innalzate dagli «antichi
germani», era un pensiero naturalmente allettante. Tanto allettante da
elettrizzare letteralmente gli studiosi di preistoria tedeschi. Una stirpe
di fieri coltivatori dei campi consci della propria forza, dotati di spirito
inventivo, di un elevato grado di civiltà - chi non avrebbe desiderato
simili antenati? E così, in un baleno, si videro in quelle tombe dei
simboli di pietra di una umanità germanico-tedesca, di una razza venuta
dall'estremo nord, laddove l'umanità aveva avuto la sua culla.
Ma guardando le cose con i paraocchi dell'ideologia non si fa certo della
scienza. Altri ricercatori meno gravati da pregiudizi videro bene che le
tracce dei massi ciclopici e di coloro che lì avevano innalzati non
conducevano a nord, ma, attraverso la Francia occidentale, verso il
Portogallo e la Spagna, al Mediterraneo orientale. Dappertutto si
rinvenivano queste poderose tombe di pietra, che avevano bensì forme diverse
a seconda dei luoghi, ma nella concezione fondamentale e nell'idea erano
strettamente imparentate con le «tombe dei giganti»: i nuraghi sardi,le
tombe a cupola nella roccia portoghesi, le necropoli maltesi, le tombe di
pietra spagnole.
Un «popolo dominatore» si dà per vinto
Alla fine del neolitico, circa all'inizio del secondo millennio,accadde
qualcosa che per gli studiosi rappresentò da principio un enigma insolubile.
La tradizione della tomba di famiglia in forma di gigantesca costruzione di
pietra, che fino allora aveva dominato, viene sostituita da un altro tipo di
sepoltura: la tomba singola.
Il morto non giace più supino, ma accoccolano sulla nuda terra. E' stato
sepolto nella posizione che soleva assumere dormendo, per perdere calore il
meno possibile (una posizione che nell'antichità era tipica dei popoli del
sud e dell'est). Il «letto» del morto era costituito da una primitiva cassa
di pietra, sopra la quale si inarcava un tumulo a sommità piatta. I resti
scheletrici mostrano che si tratta di una razza di alta statura, con cranio
allungato e stretto quanto nessun'altra razza dell'età della pietra. Per i
contadini della cultura megalitica accadeva proprio il contrario, giacché i
loro crani dimostrano che avevano un viso largo, quasi quadrato.
Nel corredo funerario figura un calice di ceramica alto e stretto, dove
l'argilla mostra le impronte di cordicelle avvolte intorno. Un ornamento
che risale al tempo in cui l'uomo dove va farsi le stoviglie con un lavoro
di intreccio, perché non conosceva ancora l'arte del vasaio. Ma ciò che
colpisce di più è un'ascia con un orlo tagliente e una estremità a
martello,che per forma e levigatezza rappresenta un piccolo capolavoro della
produzione di armi nell'età della pietra. Era certamente un'arma e non un
utensile. Gli archi e le faretre che talvolta emergono sono della stessa
qualità.
Un popolo guerriero senza dubbio, le cui tracce - ascia di guerra e ceramica
a cordicella - le troviamo improvvisamente dappertutto, non solo sul Mar
Baltico, ma anche nella Pianura padana,
nella penisola balcanica, e persino sul Volga.L'archeologo può seguire
l'irrompere di questo popolo nell'area del Baltico sulla scorta dei
ritrovamento, così come si legge in un libro aperto.
«Ciò che accadde nelle terre del nord», scrive Ernst Sprockhoff, «ebbe
gravissime conseguenze, come se una bomba fosse scoppiata nel mezzo della
cultura megalitica. Dove esplose, nell'Holstein, andò tutto distrutto
[... ]
Non vi può essere ombra di dubbio che l'emigrazione dall'Holstein e dallo
Schleswig meridionale non fu volontaria. Lo si capisce confrontando il
paesaggio dell'Holstein con le terre dell'Ems. La terra materna, la costa
baltica dello Schleswig-Holstein, è una terra fertile ricca di verdi prati e
di terreno coltivabile [... ] La nuova terra dell'Hunte, dell'Hase e
dell'Ems è in gran parte cosparsa di paludi impraticabili e di pericolose
torbiere. Solo la violenza che viene dall'esterno può spiegare un cambio del
genere. Ci si chiede allora» prosegue Sprockhoff, «chi mai abbia esercitato
questa pressione irresistibile che, con mano dura e spietata, cacciò un
popolo così orgoglioso come dev'esser stato quello che ha edificato queste
gigantesche tombe di pietra».
La risposta è: gli indogermani.
Nel corso di una grandiosa migrazione di popoli calarono dall'oriente in
Europa, ove la Turingia fu a lungo il loro punto di appoggio. In
un'Europa,dunque, che era stata colonizzata e dominata da contadini e che
mostrava i segni di una vita prospera e facile, ma il cui sviluppo culturale
da tempo si era ormai arrestato. E' la vecchia storia della corruzione
generata dal benessere: saturi di ogni cosa, le antiche virtù mutano in
vizi,viene a mancare l'assillo di una dura lotta per la vita, non ci sono
più veri stimoli, ognuno cerca il quieto vivere. Vengono a mancare anche
gli impulsi più fecondi, perché i vicini sono della stessa pasta.
Gli indogermani al contrario erano vitali, bellicosi, combattivi,conducevano
grandi greggi al seguito: il bene più prezioso, che nella loro patria - le
steppe della Russia meridionale avevano dovuto continuamente difendere, per
cui si erano trovati in un permanente stato di guerra. Erano abituati al
pericolo, i loro sensi erano desti. Costretti da improvvisi e lunghi
periodi di siccità, spinti da irrequietezza e dal desiderio di avventura,
mossero alla volta dell'occidente così come tanti popoli d'oriente dopo di
loro.
Con facilità superarono la resistenza che lungo il cammino fu loro opposta.
A prescindere dalle loro virtù guerriere, possedevano anche le armi
migliori: arco e frecce, l'ascia di guerra munita di asta, il cavallo per il
carro da guerra e come cavalcatura. Fu appunto il cavallo che diede loro il
vantaggio decisivo. Grazie ad esso erano agili, veloci, impetuosi. Non è
da sottovalutare, inoltre, l'effetto psicologico di questa prima cavalleria.
In Europa il cavallo era conosciuto solo come selvaggina da cacciare; a
nessuno era ancora venuto in mente di addomesticarlo. Con in sella i
guerrieri deve aver portato il terrore, così come accadde agli incas e agli
aztechi quando videro i conquistadores a cavallo.
E' proprio il cavallo che indica chiaramente l'oriente quale patria dei suoi
padroni. Tutti gli studiosi, di solito così divisi sulla «questione della
patria», sono concordi nel riconoscere che si riuscì
ad addomesticarlo nelle steppe dell'Asia. Anche altri caratteri confermano
l'immagine degli indogermani riconosciuta come tipica da parte di
glottologi, archeologi, antropologi e storici delle civiltà: la forma
patriarcale della comunità, la religione con un dio padre in posizione
preminente, il cranio allungato, l'ascia di guerra e così via.
Possiamo pertanto considerare risolta in modo abbastanza soddisfacente la
questione della patria originaria degli indogermani. Anche se molti
problemi rimangono irrisolti e molti studiosi sono tutt'ora di opinione
diversa, questa è la risposta che più convince.
Al loro arrivo, la civiltà contadina dell'Europa, ormai irrigidita e inerte
si mette in movimento. Gli indogermani occupano sempre una posizione di
supremazia. Sottomettono le popolazioni indigene, ma, e ciò è di
grandissima importanza, non le riducono in schiavitù. Si giunge a un
connubio tra vincitori e vinti. «Gli indogermani, un forte, agile popolo di
cavalieri delle steppe dell'Europa sudorientale e dell'Asia centrale» ,
scrive lo storico Heinrich Dannenbauer, «si diffondono verso occidente
sommergendo gli antichi abitatori delle diverse razze. Non già in una sola
volta, ma a ondate successive in tempi diversi e in diverse direzioni.
Colonizzano, fondano signorie, sottomettono l'antica popolazione, si
mescolano con essa, le impongono la loro impronta e la loro lingua, ma
restano naturalmente influenzati dalla civiltà e dalla lingua dei vinti, più
o meno a seconda del rapporto numerico e del grado di civiltà delle due
parti. In un lungo periodo di sviluppo, i due popoli crescono insieme e
formano un nuovo popolo, creano una lingua e una civiltà nuove,che recano
gli elementi di entrambi come il bambino reca in sé l'eredità del padre e
della madre.
«Così dall'unione dei conquistatori indogermanici con l'antica popolazione
sottomessa, nasce il popolo greco, la lingua e la civiltà greca, il cui
carattere mostra molti elementi propri della razza preindogermanica: la
maggior parte degli dèi greci non è di derivazione indogermanica ma eredità
da parte dei vecchi abitatori, e ciò che oggi noi diciamo ideale greco di
bellezza molto probabilmente lo dobbiamo parimenti agli antichi abitatori
della Grecia.
«Così gli italici di epoca più recente si diffusero a ondate successive
sulle popolazioni liguri e etrusche, dando vita a un nuovo popolo con un
proprio carattere: obiettivo, politicamente dotato, fondatore di forme
statuali: i romani. Così in India, per l'influenza di una popolazione più
antica a un alto grado di civiltà unicamente a un clima caldo e snervante,si
formò il popolo indiano, mentre altri indogermani si unirono a popolazioni
più antiche dell'Europa centrale dando vita ai celti. Insomma,dappertutto i
conquistatori e padroni indogermani si mescolarono con altre civiltà,
dappertutto il ricomporsi della propria e dell'altrui civiltà in una nuova
di carattere singolare: la nascita di una nuova lingua, di un
nuovo popolo».
I primi tedeschi: una miscela esplosiva
I popoli d'Europa - greci, latini, celti, illiri, balti - possono essere
paragonati, a ben vedere, a fratellastri: hanno tutti lo stesso padre ma una
madre diversa. La stessa cosa accade con i germani. Anch'essi hanno
origine dal connubio dell'elemento indogermanico con la popolazione
indigena. Questo processo storico che diede al mondo i primi tedeschi ebbe
luogo nel nord dell'Europa, nell'area della cultura megalitica: una civiltà
progredita, rappresentata da contadini sedentari e pacifici, i quali, a
giudicare dalla forma delle ossa rinvenute,erano prevalentemente larghi di
spalle, rudi, ben piantati e con visi
larghi. Tale appare l'ambiente nordico al giungere degli invasori
dall'oriente.
Gli indogermani arrivano anche qui come conquistatori, sottomettono anche
qui i residenti, anzi in parte li cacciano, ma poi si arriva a un
accomodamento: gli uomini delle «tombe dei giganti» sono in realtà troppo
forti per lasciarsi mettere definitivamente da parte. Ci si tollera a
vicenda, o, per usare un'espressione moderna, si giunge alla
fraternizzazione tra vincitori e vinti. Si scambiano esperienze,
conoscenze, tecniche artigianali. Ben presto le greggi dei nuovi venuti
pascolano vicino ai
campi di grano, mentre gli indigeni imparano a usare il cavallo, gli dèi
vengono a occupare una comune dimora celeste, l'uno parla la lingua
dell'altro.
Infine quel connubio si fa regola, la più durevole nella storia dei popoli:
il conquistatore sposa il conquistato. A poco a poco, in un processo che
dura centinaia di anni, si forma un nuovo popolo con una nuova civiltà: i
germani, o, per essere più precisi, i germani delle origini.
Un processo che dà all'occhio, o meglio all'orecchio, nella lingua. Gli
indogermani imposero la loro lingua alla popolazione residente, ma anche a
questo riguardo i costruttori delle tombe megalitiche erano abbastanza forti
da influire sulla parlata dei conquistatori. In un processo che si svolse
per molte centinaia di anni, il sistema fonetico degli indogermani venne
trasformato e trovò il suo epilogo nella cosiddetta «prima mutazione
consonantica del germanico» (germanische Lautverschiebung), dove mutarono
delle consonanti, delle forme grammaticali scomparvero, e l'accento, fino
allora libero, si pose sulla sillaba iniziale.
Il processo di integrazione si presenta ancor più perspicuamente agli occhi
dello scienziato nella mitologia, che, come si può osservare presso tutti i
popoli, conserva sempre tenacemente l'elemento antico, primordiale. In
questa sfera, la divina stirpe degli Asi conduce una regolare guerra contro
la schiatta nemica dei Vani,che sono parimenti una famiglia di dèi. Ma
siccome gli Asi, ed è provato,furono portati dagli indogermani, e i Vani
erano invece adorati dal popolo delle tombe megalitiche, la guerra non è
altro che lo specchio di avvenimenti storici.
Un popolo di contadini attaccati alla terra si unisce in matrimonio a una
tribù di pastori-guerrieri: un contrasto, quale maggiore non possiamo
immaginare. Non è affatto strano che il prodotto di questo matrimonio fosse
straordinariamente interessante, ma anche straordinariamente problematico.
Per millenni propose sempre nuovi enigmi ai suoi vicini.
Dalla parte della madre, dai contadini, vennero gli elementi della tenacia,
dell'attaccamento e dell'amore alla propria terra; dai pastori,
invece,l'irrequietezza, l'incessante vagare. Il fuoco si mescola con
l'acqua, la natura pacifica con l'impulso alla conquista, la piatta
prosaicità dell'uomo della zolla con l'ardente brama d'infinito dell'eterno
viandante.
Si pensa naturalmente al titanico Faust: «Due anime abitano, ahimè, nel mio
petto / e l'una dall'altra si vuole dividere. L'una, in rude voglia
d'amore, si attacca con tenaci organi al mondo; / l'altra si leva violenta
dalla polvere / verso i campi degli eccelsi antenati».
Qui è stato detto: e non per nulla il Faust di Goethe è l'epopea nazionale
dei tedeschi. «Amo colui che brama l'impossibile», è una parte dell'eredità.
E le parole dello studente Wagner, quando il diavolo si avvicina sotto forma
di un cane, «non vedo che un barbone nero», esprimono l'altra parte.
Chi tiene presente tutto ciò, intuisce forse perché questo popolo ha
prodotto un Beethoven e un Gauss, un Kant e un Diesel, un Hólderlin e un
Blúcher, un Hauptmann e un Wernher von Braun, un Krupp e una Bertha von
Suttner, un Friedrich Engels e uno Spitzweg. Ma anche un Hitler e uno
Schweitzer, un Thomas Mann e un Eichmann, un Heuss e un Himmler.
E' certo che una simile sequela di personalità estreme ed opposte può essere
messa insieme presso molti popoli, ma tutti riconoscono che il contrasto in
nessun luogo è così grande come
fra i tedeschi. Come potremmo spiegare, altrimenti, che il polo dei
pensatori e dei poeti è stato anche il popolo di Auschwitz e di Dachau.
Già lo storico romano Tacito aveva notato le due anime che si agitano nel
petto germanico, allorché scuotendo il capo scrive nella sua famosa
Germania: «Un grave contrasto è racchiuso nella sua natura ... ».
E quando i cimbri e teutoni, questi tremendi guerrieri, chiedono con
insistenza terra e sementi come onesti agricoltori, quando offrono il
servizio delle loro armi in cambio di un luogo in cui risiedere, anche qui
si manifesta il contrasto tra l'eredità paterna e quella materna: sono
contadini che diventano volentieri soldati, e soldati che farebbero
volentieri il contadino. Una polarità che può essere molto feconda, ma che
conduce a un dissidio interno insanabile, alla insicurezza, alla superbia,
allo scetticismo, alla mania di grandezza, all'eterno dubbio,all'arroganza.
E così rimasero per il resto del mondo oscuri,contraddittori,
pericolosamente insondabili, imprevedibili, «teutonici», e in nessun tempo
ci si è mai intesi sicuri da quello che i romani dissero furor Teutonicus.
Tempo di quiete, tempo di raccolta
Dicendo «parco naturale» intendiamo un territorio in cui animali e
piante,ben protetti e indisturbati, possono crescere. Circa tre millenni e
mezzo fa, c'era in Europa un parco in cui anche gli uomini potevano crescere
protetti e indisturbati. Abbracciava la Svezia meridionale, la Danimarca,
lo SchleswigHolstein e la Bassa Sassonia orientale, e altro non era che la
patria originaria dei germani.
Qui risiedettero per centinaia di anni, lontani dalle grandi strade: nessuna
migrazione di popoli toccò il loro territorio, nessuna invasione dovette
essere fronteggiata. Furono risparmiati da influenze esterne, poterono
gradualmente sviluppare la loro civiltà, la loro peculiare forma di vita.
Con ritmo regolare nel tempo si era formato un popolo nuovo dalla fusione
degli indogermani invasori con gli indigeni costruttori delle grandi tombe.
Lo stesso immutabile ritmo si manifesta ora nel successivo sviluppo di
questo popolo.
La comparsa delle genti indogermaniche dall'ascia di guerra nell'Europa
settentrionale è datata tra il terzo e il secondo millennio. Intorno al
1700 la tomba singola ha ormai soppiantato le tombe megalitiche: un dato
archeologico che rivela all'esperto che gli invasori hanno vinto. Ma nei
tre secoli successivi «Vincono» i vinti. Il processo di fusione avviene
attraverso un dare e ricevere scambievole e appare concluso intorno al
1400a.C. Nell'età del bronzo più antica si è giunti a un accomodamento tra i
due popoli. A questo punto possiamo tranquillamente lasciare da parte
l'espressione «germani primitivi» e parlare semplicemente di germani.
Anche nei secoli seguenti i confini della loro patria non si allargarono
gran che; e ciò con grande gioia degli studiosi di preistoria, ai quali
pertanto è data la possibilità di studiare un popolo fin dal suo primo
apparire. Una possibilità, questa, che raramente si verifica nel nostro
continente. Quando, ad esempio, si fanno avanti i greci, si comincia già ad
usare il ferro; lo sviluppo dei germani, invece, può essere ricostruito sin
dall'età della pietra passando attraverso l'età del bronzo.
E' come se questo popolo, nel suo isolamento di secoli, dovesse raccogliere
quella vitalità e quelle inesauribili riserve dello spirito di cui più tardi
avrebbe avuto bisogno per svolgere il compito che la storia
gli avrebbe affidato. Così come Parzival matura il suo spirito nella
solitudine della foresta e raccoglie le forze per divenire un giorno il
signore del Graal.
«Alla fine del neolitico si compie un processo di enorme importanza, le cui
conseguenze non sono limitate alla Danimarca o all'Holstein, ma fanno
sentire la loro influenza oltre i confini d'Europa. Dapprima,
però,interviene nel nord un periodo di quiete. Ma ciò che sembra una
stasi,significa invece maturazione interiore, e dietro il tenace immobilismo
si nasconde un sano, tranquillo sviluppo».
Così scrive Ernst Spreckhoff verso la metà degli anni trenta nel suo
saggio,più volte citato, sulla nascita dei germani. Anche la loro
diffusione successiva avvenne in modo così placido che fa pensare ai
ghiacciai.
Nella patria originaria dei germani le condizioni climatiche erano
favorevoli come mai prima lo furono né poi lo saranno in Germania. Alla
fine del neolitico era sopraggiunto un clima caldo e asciutto che creava per
gli uomini le migliori condizioni di vita. Grazie all'esame microscopico
del polline conservato nelle torbiere fuori dal contatto dell'aria («analisi
del polline»), possiamo persino sapere come era allora la vegetazione.
Insieme alla indistruttibile betulla, che ha superato tutte le età, e al
pino silvestre è la quercia che dominava il paesaggio, ed era così diffusa
che l'età del bronzo può essere detta età delle querce. Il bosco misto da
essa formato con l'olmo, il tiglio, il frassino e l'acero era pieno di luce
e abbastanza accessibile.
Il paesaggio era tutto quanto frastagliato da fiumi, laghi, fiordi e stretti
di mare, ma è noto che l'acqua non separa ma unisce. Specie in tempi
remoti, era più «percorribile» che la terra ferma con i suoi boschi e le sue
paludi. Anche questa volta l'acqua fece sì che degli uomini che non si
sentivano ancora un solo popolo si unissero insieme almeno in una comunità
di scambi.
Il bronzo: una scoperta meravigliosa
L'età del bronzo può essere considerata l'infanzia dei germani. Se la
giovinezza è il tempo della fioritura, ciò vale soprattutto per
l'artigianato artistico. Presso nessun popolo si trovano tanti e così
pregevoli oggetti di bronzo lavorato.
E si noti che questo meraviglioso metallo, tanto più duro del rame e tanto
più facile a lavorarsi che la pietra, è giunto solo tardi ai germani.
L'uomo che in quel tempo aveva avuto la geniale idea di aggiungere alla
massa di rame che fiammeggiava nella forma di argilla una parte di stagno, e
precisamente nel rapporto di uno a nove, non era del nord ma viveva sulle
rive dell'Eufrate. Del resto nel nord non c'erano le materie prime: lo
stagno, quando era possibile, si poteva avere dalla Cornovaglia, e la più
vicina miniera di rame si trovava nelle Alpi orientali. Il materiale doveva
dunque venire trasportato nei luoghi di lavorazione con dispendio di tempo e
denaro, e si pagava per lo più con l'oro del nord: l'ambra. A Troia e a
Micene, durante gli
scavi, sono stati rinvenuti dei blocchi di ambra che certo provenivano da
queste transazioni commerciali.
La ricchezza delle forme degli oggetti di bronzo germanici e la loro
bellezza era stupefacente. C'erano spade preziose, ornamenti
pregiati,dischi cultuali incrostati d'oro, fermagli, fibule, elmi, scudi,
collari, e
persino completi necessaires con rasoi e attrezzi per la cura di unghie e
orecchi e, cosa inaudita, strumenti a fiato, le cosiddette «lure» da cui si
potevano ricavare dolci melodie.
Il bronzo quando era nuovo aveva lo splendore dell'oro e col
tempo,specialmente in prossimità del mare, si ricopriva di uno strato
verdognolo splendente come seta, detto patina. Il bronzo non veniva
battuto, ma fuso e quindi lavorato col punzone, vale a dire che si
scolpivano nel metallo con martello e scalpello finissime decorazioni:
nastri a zig-zag, spirali,archi, cerchi, ruote. Prediletti erano i motivi
legati al culto religioso,che esprimevano l'adorazione del sole.
Tecnicamente i lavori erano così perfetti che qualche studioso ha seriamente
pensato che per incidere tali decorazioni nel bronzo gli scalpelli dovevano
essere di ferro. Di conseguenza non si può affatto parlare di una età del
bronzo.
Un ragionamento un po' troppo rigido, ma comprensibile. Del resto era già
successo in precedenza che dei fonditori di bronzo, di fronte a recipienti
dalle pareti singolarmente sottili, avevano dubitato che non si trattasse di
oggetti antichi di ben 3500 anni. Quanto alla punzonatura, un orefice di
Copenaghen, interpellato, dimostrò che questa operazione poteva essere
eseguita anche con scalpelli di bronzo.
Siffatte discussioni ci sono sempre state. Nascono da una fede nell'idea di
progresso che, considerando il corso dei tempi, non è affatto giustificata.
Se il nostro progresso è più tecnico che culturale, la domanda «com'è che ci
riuscivano già allora? » suona un po' presuntuosa.
«La civiltà dell'età del bronzo», scrive lo studioso di preistoria Gustav
Schwantes, che giovanissimo intorno alla fine del secolo scorso aprì nuove
strade alla sua disciplina, «è una delle scoperte più meravigliose degli
studiosi di preistoria. Chi, centocinquant'anni fa, avrebbe potuto anche
solo sospettare che già millecinquecento anni prima dell'arrivo dei romani
nelle terre del nord vi erano condizioni di vita e di civiltà ben lontane da
quelle dei popoli selvaggi e tali da poter essere paragonate soltanto alla
civiltà greca dello stesso periodo, di modo che a buon diritto si può
parlare di una "antica civiltà" che per alcuni aspetti giunge sino a noi?».
L'avanzata germanica
Durante l'età del bronzo i germani si espandono dalla loro patria originaria
nella Svezia meridionale, in Danimarca, nello Schleswig-Holstein e nella
Bassa Sassonia orientale. Attraversano l'Elba giungendo fino al Weser e
colonizzano il Meclemburgo fino alla foce dell'Oder. Intorno al mille
avanti Cristo hanno raggiunto il corso inferiore della Vistola, nel sud
l'Harz, la Havel e l'Elba presso Magdeburgo, in occidente il corso inferiore
del Reno. Chi segua questo movimento sulla carta, nota la sproporzione fra
il tempo impiegato e la terra occupata: nel corso di diversi secoli avvenne
solo una conquista relativamente limitata di terre.
Nell'età del ferro, forse intorno al 750 a.C., questo quadro muta
decisamente. I germani si mettono in movimento. Come assaliti da furia
migratoria, sommergono la Bassa Sassonia occidentale, cacciano i celti dalla
riva orientale del Reno, intorno al 500 a.C. sono già nei territori a
sinistra del Reno tra il Belgio e la Mosella, occupano la Slesia, dalla
Scandinavia calano tribù che passano il Mar Baltico e avanzano, lungo la
Vistola, in direzione sud-est. Nella Germania centrale «l'avanzata
germanica» avviene lentamente. Anche qui risiedevano i celti, un popolo che
oppose in guerra una resistenza accanita ai germani, ma che in tempo di pace
ebbe su di loro un'influenza assai feconda. Appartenevano anch'essi alla
famiglia dei popoli indogermanici e per molti aspetti erano simili ai
germani. Così simili che i cimbri e teutoni, al loro primo apparire, furono
scambiati con loro.
I celti erano apparsi nell'anno 387 a.C. davanti a Roma, l'avevano
distrutta, avevano mandato ambasciatori al re Alessandro, al quale avrebbero
voluto unirsi, si volsero verso la Grecia e saccheggiarono Delfi.
Per oltre due secoli furono il terrore dell'Europa. Che i germani
riuscissero a sbarazzarsi di loro, dimostra il loro valore. Va detto,
però,che in questo furono agevolati dall'assoluta incapacità dei celti di
creare delle strutture politiche durevoli. E pertanto, già intorno al
periodo che vide la nascita di Cristo, molti dei loro territori erano caduti
nelle mani dei germani.
Uno dei motivi più importanti che determinarono quella «piccola migrazione
di popoli», come vogliamo chiamarla per distinguerla da quella «grande» del
375 d.C. circa, fu l'improvviso cambiamento del clima che si sentì in tutta
Europa nell'epoca che segnò il passaggio dall'età del bronzo a quella del
ferro. Diversamente da quanto climaticamente si era verificato nel
neolitico, le condizioni climatiche ora non divennero migliori ma
peggiori:umido e freddo.
L'«età del bronzo immersa nel calore e nella luce», con le sue torride
estati, i suoi caldi autunni e i suoi miti inverni finì per sempre e
subentrò quel clima che agli europei del nord e del centro dei
nostri giorni offre un quotidiano, spiacevole tema di conversazione: gli
inverni sono lunghi, le primavere piovose e le estati fresche.
I paleoclimatologi, come vengono chiamati gli scienziati che studiano i
climi del passato, sono venuti in aiuto agli studiosi di preistoria.
Costoro, infatti, si erano ormai irrigiditi sul proprio terreno che
improvvisamente non dava più nulla. Il ricco materiale dell'età del bronzo
si era fatto sempre più scarso, fino a cessare del tutto. Non c'era rimasto
più nessuno in quei luoghi che potesse lasciare qualcosa in eredità, oppure
era ormai talmente povero che non aveva nulla da dare ai suoi morti.Come
abbiamo già detto, i cambiamenti climatici avvenuti hanno lasciato chiare
tracce nelle torbiere. I singoli strati rivelano all'esperto,attraverso i
resti vegetali che contengono, quando e come certi alberi si sono diffusi o
non sono comparsi. Lo strato che riguarda l'inizio dell'età del ferro è, a
paragone degli altri, singolarmente e fortemente umido. Un
segno, questo, che ci fa pensare a un clima umido e fresco. Dappertutto
allora si diffusero le torbiere e le depressioni paludose, i fiumi
superarono gli argini, i terreni sino allora preferiti divennero umidi e
impraticabili, le erbacce invasero i campi coltivati e i raccolti si fecero
miseri.
Negli anni della prosperità la popolazione era fortemente cresciuta e
pertanto la fame si fece presto sentire, e con la fame la necessità di
emigrare. E' significativo il fatto che si preferirono allora le regioni
con terreno permeabile e sabbioso che l'umidità non danneggiava, anzi faceva
prosperare, come i territori dell'Oder e della Vistola e la Marca di
Brandeburgo (ove i sennoni appartenenti al gruppo dei suebi crebbero sino a
divenire una delle tribù più popolose).
Catti, cheruschi, suebi e marcomanni
Quando un popolo si diffonde in nuove sedi è naturale che si suddivida. Ciò
accadde anche nel primo periodo dell'espansione dei germani, che portò alla
formazione dei grandi gruppi dei germani settentrionali, orientali e
occidentali.
Dai germani del nord ebbero origine i danesi, gli svedesi, i norvegesi, gli
islandesi e gli abitanti delle isole Faer Oer, che parlano un loro proprio
dialetto. Appartengono invece ai germani dell'est oltre ai bastarni, agli
sciri, ai gepidi e agli eruli, gli ostrogoti e i visigoti divenuti famosi
per aver fondato grandi regni, i burgundi e i vandali. I loro regni
fiorirono in Italia, in Francia, in Spagna e nell'Africa settentrionale.
I germani dell'ovest erano la famiglia col maggior numero di congiunti, vale
a dire di tribù. Due di queste ci sono già note: i cimbri e i teutoni, che
avevano fatto irruzione nella terra promessa per poi trovare la loro fine
nell'infemo di Aquae Sextiae e di Vercellae. Le loro virtù guerriere
divennero leggendarie e da ciò trassero profitto i suebi quando varcarono il
Reno ed entrarono in Gallia. I disperati tentativi di Cesare di arruolare
delle truppe ausiliari all'inizio furono vani, perché nessuno voleva entrare
in campo contro un popolo che aveva fatto tremare Roma. I cheruschi
continuarono degnamente questa tradizione guerriera.
Anche i frisi, gli attuali frisoni, bersaglio dei motteggi dei tedeschi di
oggi, erano germani occidentali, e così pure i sennoni della Marca di
Brandeburgo, col famoso bosco sacro del dio della guerra Ziu; poi i
sugambri tra Lippe e Westerwald, i selvaggi batavi sul delta del Reno, gli
usipeti e i tencteri dell'Assia meridionale, gli ubii il cui centro era
l'odierna Colonia, i brutteri tra Ems e Lippe, i catti che diedero il loro
nome agli abitanti dell'Assia e che sono considerati i più scaltri e accorti
di tutti (e pare lo siano ancor oggi), i marcomanni, il cui sangue è
affluito nelle vene dei bavaresi come quello dei suebi nelle vene degli
svevi di oggi, gli angrivarii, gli ermunduri, gli arudi - «chi enumera i
popoli, nomina i nomi». Erano decine e decine di tribù, tra le quali non
possiamo certo dimenticare gli angli e i sassoni, precursori degli inglesi.
I germani occidentali fondarono stati durevoli, la loro lingua continua a
vivere nella lingua degli inglesi, dei frisoni, degli olandesi e... dei
tedeschi. Ma i nostri antenati diretti sono stati i germani del gruppo
occidentale dell'Elba, del Weser e del Reno.
Quando si affacciarono alla ribalta della storia, non disponevano di alcuna
forma statuale. Non avevano una coscienza politica. I cheruschi sapevano
solo di essere cheruschi, i suebi suebi, e così i catti, i marcomanni, i
batavi. Ogni tribù si considerava una nazione e il territorio da essa
occupato era la patria. Ma nessuno di questi uomini che assommavano a
milioni (prevalentemente biondi, con gli occhi azzurri, dal cranio allungato
e di alta statura) sapeva, e ciò costituisce un interessante fenomeno, di
appartenere al «popolo dei germani». Non si sono mai designati con questo
nome e lo hanno pian piano accettato da altri. E precisamente da un uomo
che avrà un ruolo essenziale nel prossimo capitolo: Cesare.
O almeno è stato lui a diffonderlo coi suoi libri, facendolo quindi entrare
nell'uso.
Perchè i germani si chiamavano germani
Il primo a indicarli col loro nome è stato Posidonio (135-51 a.C.), quel
genio universale greco di Apamea (Siria), dei cui 52 libri delle Storie
molti suoi colleghi greci e latini hanno vissuto. Ma allora non si
«copiava» un altro scrittore, bensì si «attingeva» a lui, il che era in
fondo la stessa cosa. Va detto, però, che questo modo di plagiare ci ha
conservato molte opere preziose che altrimenti sarebbero andate perdute.
Quello che è rimasto del quadro che Posidonio fa dei germani può essere poco
gradevole per molti, perché più che di storia sa di cucina.
Si dice tra l'altro che i germani mangiano a mezzogiorno della carne che è
stata arrostita a grandi pezzi, e vi bevono sopra latte e vino schietto.
Intorno all'80 a.C., quando scriveva di queste cose, Posidonio era, per
quanto riguarda i germani, una voce nel deserto. Le cose cambiarono
solamente con la grande sollevazione degli schiavi capeggiata da Spartaco
del 73-71 a.C., quando i romani dovettero constatare con meraviglia che i
prigionieri di guerra cimbri e teutoni, che come tutti i prigionieri di
guerra erano stati fatti schiavi e venivano considerati celti, combattevano
in un gruppo particolare dell'esercito.
Quando Cesare vent'anni più tardi ricorda i germani nella sua Guerra
gallica, ciò avviene con quella naturalezza che presuppone una chiara
conoscenza, da parte del lettore, di questo nome. Egli scrive che, in
occasione della sollevazione delle tribù galliche, tutti i belgi erano in
armi e che a loro si erano uniti anche i germani che abitavano al di qua del
Reno. Ancora più chiaramente egli si esprime nel sesto libro: «I segni e i
condrusi, che sono della stirpe del popolo dei germani e che abitano tra
gli eburoni e i treviri, mandarono ambasciatori a Cesare con la preghiera di
non volerli considerare nemici e di non credere che tutti i germani al di
qua del Reno avevano fatto causa comune [con gli eburoni]».
Cesare non ricorda i tungri che appartenevano parimenti al gruppo dei
germani che risiedevano sulla riva sinistra del Reno. La cosa non sarebbe
importante, se non che è appunto con essi che è legato il nome di germani.
Questa tribù così temuta dai galli è quella menzionata da Tacito in un passo
tanto famoso quanto tormentato. Ma questo brano, con qualche ragione, ci
spiega da dove i germani hanno avuto il loro nome.
Tacito qui si tira prudentemente indietro e, per mancanza di indagini
personali, manda avanti altri che si fanno garanti della cosa. Questi
«informatori», come oggi si direbbe, sono da lui designati con l'espressione
«alcuni scrittori». «La parola germani sarebbe nuova e comparsa solo da poco
tempo», si dice. «Infatti, quelli che per primi avrebbero varcato il Reno e
costretto i galli a ritirarsi, gli attuali tungri, sarebbero stati allora
chiamati germani. In tal modo il nome di una sola tribù ha indicato, a poco
a poco, tutto un popolo».
Era accaduto, dunque, quello che possiamo osservare spesso nei rapporti di
popoli confinanti: il nome della parte viene riferito al tutto. Il che
corrisponde al bisogno di ordine dello spirito umano: si vuol sapere con
quale vicino abbiamo a che fare, e perciò si dà il nome di un certo membro a
tutta la famiglia, che non è conosciuta al pari di lui. Quando una cosa ha
ricevuto un nome, ci appare più rassicurante. I germani debbono dunque il
loro nome ai galli, che lo trasmisero ai romani.
In modo non diverso, noi tedeschi ricevemmo più tardi il nome di Allernands
dai francesi, che conoscevano la tribù degli alemanni confinante con
loro;dai finlandesi il nome di Saksat per via dei sassoni; dagli ungheresi
il nome di Svábok per via degli svevi residenti nel medio corso del Danubio;
dai vendi nelle Spreewald il nome di Bavori per via dei bavaresi. I germani
a loro volta chiamarono i celti Walchen, conoscendo la tribù dei volci, da
cui provenne poi la parola Welsche.
Ma da dove deriva e cosa significa la parola «germani»? Su questo argomento
si sono affaticati molti studiosi ed è divampata più di un'aspra rissa. Col
risultato che ora sappiamo da dove il nome non viene. Non deriva né dal
latino né dal celtico. Non ha nulla a che vedere con la parola latina
germanus (fratello, carnale, genuino), anche se una tale soluzione sarebbe
allettante, e nemmeno col celitico garmen (grido), che indicherebbe pertanto
i germani come «urlatori». Secondo una derivazione
del traco-illirico germos (caldo), i germani sarebbero delle «teste calde»,e
secondo altre interpretazioni «uomini delle foreste», «Vicini», «uomini
dalla lancia», «i desiderati», «i benvenuti». Ma nessuna di queste
spiegazioni può essere provata in modo soddisfacente.
Molto interessante è il tentativo di far derivare il termine dall'antico
inglese geormenleaf, parola che indica una specie di malva dalle foglie a
punta, frastagliate, molto caratteristica. Da georrnenleaf si giunge a
*germana che significa «eminente, grande». Anche se tutto questo
ragionamento linguistico su una pianta può apparire al profano un po'
arbitrario, linguisti di grande valore sono persuasi che questa derivazione
è quella più vicina alla verità. I germani vorrebbero dunque essere «gli
alti», «i grandi», ciò che può essere inteso sia nel senso fisico che in
quello spirituale dell'espressione.
«Hariuha Haitika»: quando le pietre parlano
Per quanto i germani non si considerassero una nazione, nondimeno nel loro
intimo sentivano di essere tra loro congiunti. Riconoscevano persino una
discendenza comune.
«Negli antichi canti», scrive Tacito, «che costituiscono l'unica tradizione
storica esistente, i germani celebrano Tuisto, generato dalla terra. Gli
attribuiscono un figlio, Mannus [Mann, Mensch = uomo], che essi esaltano
quale progenitore e fondatore del loro popolo. Si dice che costui abbia
avuto tre figli, secondo il cui nome i germani abitanti nelle terre del Mare
del Nord sono stati detti ingevoni, quelli dell'interno erminoni, e quelli
che occupano le terre del Reno, istevoni».
L'espressione «antichi canti»,a bella posta sottolineata, fa nascere l'idea
che non c'è nulla da fare per la conoscenza storica. Ma non è così, perché
l'esperienza insegna che ogni leggenda, specie quella che riguarda la
nascita di un popolo, contiene sempre un nocciolo di verità storica. Gli
ingevoni, erminoni e istevoni possono essere infatti individuati. Non erano
tribù, ma cornunità religiose, legate dall'adorazione per una divinità loro
comune.
Per gli ingevoni si trattava del dio Ing, dal quale dipendeva la fecondità
dei campi. Gli ingevoni abitavano quindi in un territorio in cui vigeva la
sacra legge di Ing. Egli era un Vano e apparteneva perciò a una stirpe
divina che era stata introdotta dai costruttori delle tombe dei giganti
quando si unirono «in matrimonio» con le genti dall'ascia di guerra.
Ermin, «il sublime», era considerato dagli erminoni il dio supremo. Quanto
sia stata grande la sua forza unificatrice su uomini il cui spirito
d'indipendenza rendeva scettici verso ogni tentativo di unione, può essere
dimostrato dal bosco sacro dei sennoni. In questo santuario si radunavano i
suebi per celebrare regolarmente il culto, anche quando si erano ormai
diffusi su un vasto territorio suddividendosi in singole tribù.
Ben poco si sa del legame religioso che teneva uniti gli istevoni. Non
risulta infatti un dio dal nome Istvas;probabilmente si tratta di un
appellativo di Wodan.
Oltre alla religione, era la lingua in comune che dava ai germani una
coscienza comunitaria. Si tratta del cosiddetto «germanico comune», una
lingua comune a tutti, anche se ovviamente, allora come oggi, i dialetti
debbono aver avuto la loro importanza. Le diversità dialettali non erano
certamente tali che il cherusco Arminio avesse bisogno di un interprete
quando doveva trattare col marcomanno Maroboduo; così come oggi un uomo
politico dello Schleswig-Holstein non ricorre a un interprete quando parla
con un uomo politico bavarese.
Come suonasse la lingua germanica, è possibile desumerlo dalle iscrizioni
runiche. I segni che hanno conservato la lingua germanica sono tanto
misteriosi quanto la loro origine è avventurosa. Negli anni trenta degli
scienziati tedeschi si recarono in Val Camonica, a nord di Brescia, e lì
rinvennero un gran numero di scritte incise nella roccia. Queste iscrizioni
rupestri mostravano, soprattutto nella tecnica di scrittura, grandi
somiglianze con le rune germaniche.
La direzione della scrittura, ad esempio, mutava al termine di ogni riga, di
modo che i gruppi di lettere restavano legati tra loro.
Boustrophedón -«voltando alla maniera dei buoi (quando arano)» - veniva
definita in greco questa maniera di scrivere, con un'espressione quanto mai
evidente. Le iscrizioni rupestri andavano da sinistra verso destra (così
come scriviamo noi), ma anche da destra verso
sinistra. Le iscrizioni runiche seguono anch'esse ambedue le direzioni.
Ulteriori concordanze risultavano dall'eliminazione delle rotondità e delle
linee orizzontali, dalla forma dei segni di separazione e dal modo di
esprimere le consonanti doppie mediante quella semplice.
Le iscrizioni rupestri risalivano a un alfabeto portato da un popolo che per
secoli era stato considerato il «popolo dimenticato»: gli etruschi. Nel VI
secolo a.C. essi erano penetrati nella pianura del Po. Agli etruschi
l'Europa centrale deve non poca parte della sua civiltà e della sua
cultura,e se i popoli alpini conobbero così presto il leggere e lo scrivere,
lo debbono a loro.
La scoperta in Val Camonica, che è legata al nome dello storico tedesco
Franz Altheim, convalida una teoria che era stata ritenuta troppo ardita e
pertanto contrastata, secondo la quale i caratteri runici derivano
dall'alfabeto degli etruschi. Ma in che modo i germani sono venuti a
conoscenza di questo alfabeto? Chi ha portato la fiaccola accesa così
lontano, lungo il Reno fino all'estremo nord? Occorreva rispondere a queste
domande se non si voleva che tutta la teoria crollasse come un castello di
carte.
L'alfabeto alla base di quelle iscrizioni era stato in uso dall'inizio del
secondo secolo avanti Cristo alla fine del primo secolo dopo Cristo. Su
questo non c'erano dubbi. Si trattava, dunque, di individuare i germani che
potevano essere stati in quel territorio delle Alpi durante questo periodo
di tempo.
Solo di un popolo poteva trattarsi: i cimbri. Dopo la vittoria sui romani
presso Noreia, a sud di Klagenfurt, attraversando la Val Pusteria erano
passati nella valle dell'Isarco e in quella della Sill, per giungere
poi,varcato il Brennero, nella Germania meridionale. Passati dieci
anni,tornarono indietro, costeggiarono l'Adige, costrinsero il console
Lutazio Catulo ad abbandonare le sue fortificazioni e continuarono lo loro
marcia saccheggiando le terre a nord del Po.
«Quando gli eserciti riuniti di Mario e di Catulo nel 101 varcarono il
Po»,scrive Franz Altheim, «essi si scontrarono coi loro avversari La
battaglia finale ebbe luogo nei Campi Raudii nel territorio di Vercellae.
Nell'inverno del 102/101, i cimbri hanno quindi percorso tutta la riva
sinistra del Po, dall'Adige sino alla Sesia. La zona di diffusione dei
dialetti italiani settentrionali e del loro alfabeto, da Matrei nella
Wipptal fino al lago d'Orta, corrisponde quasi completamente a questo
territorio».
Fu allora che i cimbri ricevettero l'impulso a formare le 24 lettere
dell'alfabeto runico, che prende nome dai suoi primi sei segni:
f-u-th-a-r-k. I cavalieri cimbrici, poi, che erano riusciti a salvarsi
dall'inferno di Vercellae, hanno recato l'alfabeto in Germania e nell'antica
patria dello Jutland.
Rune (runa) rimanda a raunen (bisbigliare), un legame lessicale che rivela
l'uso magico dei segni della scrittura, e pertanto le rune non erano
solamente dei segni per indicare dei suoni, come le nostre lettere, ma
avevano anche un significato. Con esse si poteva «mettere per iscritto
qualcosa», ma si era anche in grado di esprimere un concetto mediante un
solo segno. F era il segno fonetico per f, ma significava anche, usato da
solo, « bestiame,beni mobili ». U era u e anche il simbolo per « uro ». E
così via.
Le iscrizioni runiche più antiche risalgono all'inizio del terzo secolo dopo
Cristo, e ciò è troppo tardi per le nostre considerazioni; tuttavia le
iscrizioni scoperte specialmente nel nord hanno conservato così bene il
carattere del «germanico comune» da poterci ancora comunicare qualcosa
dell'antica melodia della lingua.
Su uno dei due famosi corni d'oro di Gallehus (che furono rubati nel 1802 e
fusi) si diceva: ek klewagastiR holtijaR horna tawido - «Io, Leugast [ospite
della gloria] figlio di Holte, ho fatto il corno». Su una brattea,una
lamina a disco ornamentale rinvenuta a Sjaelland, sta scritto: hariuha
haitika. farauisa. gibu auja - «Hariuha, mi chiamo, Colui che sa di cose
pericolose, io do la felicità». Oppure, e meglio ancora, sul fusto della
lancia di Kragehul: ek erilaz asugisalas muha haite ga ga ga gihu gahelija
wiju di g - «lo, l'erulo, son detto il compagno di Ansgisl. Io do la
felicità. La rovina urlante io consacro alla lancia».
Chi legge ad alta voce, ha l'impressione di sentire una lingua esotica, e si
chiede stupito come da tutto questo abbia potuto nascere la lingua tedesca.
I romani non si sono mai dati pena di imparare neppure un dialetto di una
tribù germanica. A loro quell'idioma pareva semplicemente troppo...barbaro.
Così come i greci, quando certa gente apriva bocca, intendevano sempre
«barbara barbara barbara», da cui deriva appunto la parola «barbaro».
Il greco barbaroi è infatti una designazione dello straniero, dell'uomo
incomprensibile, che dice cose incomprensibili.
I romani, quando trattavano con i germani, non potevano fare a meno degli
interpreti. Nemmeno Cesare, quando parlò con Ariovisto, il re germanico dei
suebi. Fu un colloquio la cui spettacolare interruzione influì notevolmente
sul corso della storia.
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Un piccolo commento da parte mia.Quando l'autore,di chiare simpatie
politiche antifasciste e antinaziste,parla di commistione tra i popoli
indogermani e quelli detti megalitici,sembra esaltare le virtu' del
mescolamento.
Diciamo però la verità.
Si trattava sempre di popoli bianchi.
Secondo lo studioso della genetica delle popolazioni,il noto antirazzista
Cavalli-Sforza,gli europei del neolitico erano derivati per l'80%dai
discendenti dei preistorici Cro-Magnon e solo per il 20%da contadini
mediorientali provenienti dalla mezzaluna fertile e inventori
dell'agricoltura.
Il mescolamento tra razze diverse non porta infatti ad armonia ma alla
distruzione dell'unità tra corpo-anima e spirito su cui si fonda la vita
sociale di un popolo.